La valutazione della pericolosità sociale psichiatrica e il sostegno socio-psicologico del condannato in carcere

La sempre più pervasiva analisi del sostegno svolto in chiave socio-psicologica nei confronti del condannato, rende irrefragabile il dibattito che prende in considerazione se tale sostegno sia presente in maniera effettiva, nell’ambito di diverse situazioni, in una prospettiva di risocializzazione del medesimo.

In tale articolo, si vuole porre un’analisi su due situazioni determinate, cioè il caso di un soggetto cosiddetto “libero” condannato sottoposto ad una misura di sicurezza e quello di un soggetto sottoposto alla custodia cautelare in carcere.

Elemento comune ad entrambi le condizioni è la presenza degli Uffici di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.), i quali pongono in essere attività generali e specifiche volte, tramite gli assistenti sociali, ad un’osservazione scientifica della personalità del condannato.

In particolare, tra i compiti dell’U.E.P.E. vi è quello di individuare un percorso volto al sostegno socio-psicologico nel confronti del medesimo fornendo, da una parte, consulenze volte a favorire il buon esito del trattamento penitenziario nei confronti del detenuto, dall’altra progettando attività tese ad assicurare il reinserimento sociale dei sottoposti alle misure di sicurezza.

Tale équipe, detta “di osservazione e trattamento“, si caratterizza per la presenza di più figure, quali il direttore e un collaboratore dell’Istituto di pena, uno psicologo o specialista, un educatore, un assistente sociale ed assistenti volontari eventuali, necessari per l’elaborare un programma di trattamento rieducativo individualizzato.

In secondo luogo, svolge anche inchieste sociali, utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione di misure di sicurezza, indagini socio-ambientali per i soggetti condannati che richiedono la concessione di una misura alternativa alla pena detentiva e indagini socio-familiari volte al trattamento dei condannati e degli internati (su richiesta del magistrato o del Tribunale di Sorveglianza).

L’art. 80 della Legge sull’Ordinamento penitenziario prevede la figura dello psicologo, il quale pone in essere l’osservazione scientifica della personalità, al fine dell’individualizzazione del trattamento.

Ai sensi dell’art. 27 della Costituzione, la pena deve infatti tendere alla rieducazione del condannato.

Ponendo un focus sull’analisi del sostegno socio-psicologico dei condannati, i colloqui presso tale servizio possono essere richiesti dalla direzione dell’Istituto e, in particolare, per l’osservazione scientifica della personalità, dalla direzione del servizio o su istanza diretta del detenuto.

Nel caso di custodia cautelare in carcere, ci si chiede se, a seguito di richiesta di colloquio con il professionista psicologo, questa risulti sufficiente nell’ipotesi didscontro dei cosiddetti “sintomi di disadattamento” nei confronti del sistema penitenziario o nel caso di pazienti affetti da patologie psichiatriche.

L’Istituto penitenziario infatti, dispone di determinati strumenti a sua disposizione (repressione, terapia psico-farmacologica e trattamento intramurario come corsi scolastici, formazione professionale, lavoro, ecc…), che non sempre risultano bastevoli ad arginare dei comportamenti che mettono a rischio l’incolumità del detenuto e l’equilibrio della struttura carceraria.

Tra questi, si possono riscontrare lo sciopero della fame, reiterati comportamenti d’indisciplina ed insubordinazione, ed azioni autolesionistiche.

Lo psicologo deve inoltre prendere in considerazione il rischio di essere strumentalizzato dal detenuto che potrebbe richiedere dei colloqui, a bella posta, per lucrare il vantaggio derivante dal raggiungimento degli obiettivi inerenti al processo rieducativo, quale la manifestazione di consapevolezza del fatto commesso, nonché della volontà di prendere parte al programma di risocializzazione, al fine di favorire la possibilità di conseguire permessi premio, sconti di pena e similari.

Tuttavia, ciò non tange l’obiettivo rieducativo in sé, che richiede l’effettiva collaborazione del detenuto nell’adesione del programma e nel rispetto delle regole intramurarie.

Resterebbe dunque in mano al professionista psicologo l’osservazione dell’effettiva adesione al programma di trattamento e quindi se e quando modificarlo, in base alla soggettività determinata del singolo soggetto.

Dunque, i detenuti stessi possono sì richiedere tali colloqui, senza alcun veto, tuttavia risulta rilevante il problema della soggettività dell’aiuto di cui effettivamente necessita il singolo detenuto.

Pur potendo apparire eristico, laddove risulti in realtà nota la mancanza di risorse di tale servizio, è stata più volte dibattuta la reale possibilità di sostegno fornita ai detenuti in ambito carcerario a causa della mancanza di personale addetto a tale servizio.

In particolare, ciò è previsto dall’art. 13 della Legge sull’Ordinamento penitenziario, secondo cui il trattamento deve rispondere ai bisogni della personalità di ciascun soggetto e nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale.

Tale problema attiene anche e non solo, al caso di applicazione di una misura di sicurezza ad un soggetto condannato. Infatti, tra i presupposti per la stessa, oltre alla commissione del reato, è necessario il requisito della pericolosità sociale.

Benché tale condizione, socialmente insidiosa, sia stata al centro di un ampio dibattito tra le diverse figure di addetti ai lavori, è altresì sempre richiesto che la figura dello psicologo sia pregnante per l’osservazione del soggetto, fornendo informazioni tramite la relazione presentata all’organo giudicante interessato.

Il magistrato infatti, per valutare nel caso concreto la pericolosità sociale dei soggetti dichiarati incapaci di intendere e di volere, deve prendere in considerazione il parere tecnico emesso da un professionista.

Orbene, ai sensi dell’art. 203 c.p., è socialmente pericolosa la persona che, anche se non imputabile o non punibile, è probabile che commetta nuovi fatti previsti dalla legge come reato.

La qualità di persona socialmente pericolosa si può desumere, in particolare, dalle circostanze indicate nell’articolo 133 c.p., nel vaglio dei due parametri della gravità del reato e della capacità a delinquere che vanno tassativamente desunti dagli indici elencati nella prefata norma.

La valutazione è supportata da elementi che possono essere desunti dalla condotta del reo successiva al reato, nonché dalla adesione del soggetto al percorso individuato e dal rispetto delle regole prescritte.

Nel caso in cui tale soggetto risulti affetto da un problema psicologico o psichiatrico, ci si chiede se e come la perizia psicologica e il percorso di trattamento, possano essere efficacemente delineati in maniera soggettiva, laddove l’organico manchi e laddove spesso vi sia assenza di posti in REMS, conseguendo una necessaria sostituzione con l’utilizzo della misura della libertà vigilata.

Il perito utilizza degli indicatori per valutare la pericolosità sociale di un soggetto non imputabile o parzialmente imputabile: in particolare, Fornari1 li distingue in indicatori interni ed esterni.

Gli indicatori interni sono di natura clinica, cioè connessi alla patologia clinica, e prendono in considerazione la presenza e la persistenza della sintomatologia psicotica, la non accettazione delle farmacoterapie e i problemi comportamentali.

Gli indicatori esterni sono invece di natura individuale e attengono alle relazioni socio-familiari, alle possibilità di reinserimento, alle opportunità di sistemazione logistica e all’astenersi da frequentazioni di persone precedentemente influenti sulla condotta deviante.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 6596/2023, ha infatti affermato che “agli effetti penali, la pericolosità sociale rilevante ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza, consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati e deve essere valutata autonomamente dal giudice che deve tener conto dei rilievi peritali sulla personalità, sugli effettivi problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell’imputato, nonché sulla base di ogni altro parametro desumibile dall’art. 133 c.p.”.

È evidente che la perizia, affinché sia uno strumento più adeguato ai fini della decisione del giudice, debba prendere in considerazione una molteplicità di aspetti che richiedono una valutazione particolareggiata nel caso di soggetto affetto da un problema psicologico o psichiatrico.

Orbene, secondo uno studio statistico, i funzionari del servizio sociale negli U.E.P.E. sono 1.112 a fronte di una pianta organica di 1.211. Ciò significa che ogni funzionario ha sulla propria scrivania, mediamente un totale di oltre 100 fascicoli, ognuno corrispondente ad un soggetto2.

Lo psicologo, nella realtà, si trova spesso ad esprimere valutazioni diagnostiche e prognostiche sull’ambiente reale, partecipando alla formulazione del “programma di trattamento individuale”, o confrontandosi con operatori di servizi esterni.

Alla luce di quanto sopra esposto, è inevitabile chiedersi dunque come il supporto socio-psicologico, sia nel caso di misura di sicurezza che in caso di custodia cautelare in carcere, possa essere sufficiente a costituire un percorso di risocializzazione o un sostegno ad personam, di fronte alla lapalissiana mancanza di risorse, necessario a garantire il conseguimento degli obiettivi previsti dalla legge.


  1. FORNARI Ugo, Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, UTET, Torino, 2024. ↩︎
  2. GATTA Gian Luigi, Servono più risorse per offrire alternative al carcere, Il Sole 24Ore, 2022. ↩︎
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