Il rapporto tra mail offensive e diritto di critica

Introduzione

La questione affrontata, di recente, dalla sesta sezione della Corte di cassazione, nella sentenza n. 33019 del 22 agosto 2024, ruota attorno alla violazione dell’art. 342 codice penale, rubricato “Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, la cui ratio è quella di proteggere il prestigio degli organi e dei soggetti investiti di funzioni pubbliche.

L’analisi che segue si soffermerà sui primi due commi della suddetta norma che, nello specifico, punisce “chiunque offende l’onore o il prestigio di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o di una rappresentanza di esso, o di una pubblica Autorità costituita in collegio, al cospetto del Corpo, della rappresentanza o del collegio, […] con la multa da euro 1.000 a euro 5.000” (comma primo).

Il secondo comma prevede che “la stessa pena si applica a chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno, diretti al Corpo, alla rappresentanza o al collegio, a causa delle sue funzioni”.

Un’analisi dell’art. 342 codice penale

Si appalesa necessario chiarire alcuni aspetti inerenti all’art. 342 codice penale.

In primo luogo, la norma prevede che il soggetto passivo della fattispecie delittuosa sia costituito  da un corpo politico, amministrativo o giudiziario. Tale aspetto rappresenta una delle principali differenze con l’art. 341-bis codice penale (“Oltraggio a un pubblico ufficiale”), il quale punisce “chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”.

Con un’interessate pronuncia, la Corte di Cassazione spiega la suddetta differenza. In particolare, specifica che per “corpo amministrativo” deve intendersi “l’organo pubblico dello Stato o dell’amministrazione statale indiretta nell’integrità della sua composizione, mediante la quale esso normalmente funziona, oppure una rappresentanza dello stesso.”

Ne consegue che risponde del delitto di cui all’art. 342 codice penale “colui il quale usi espressioni offensive dirette all’organo medesimo nel suo complesso e al suo cospetto. Se, invece, dette espressioni sono rivolte a persone facenti parte dell’organo, cioè a singoli membri di esso, la condotta può integrare, ricorrendone gli altri elementi costitutivi, solo il reato di cui all’art. 341, salva la possibilità del concorso formale tra i due reati ove, con un unico atto, sia arrecata offesa pure al corpo amministrativo” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 660 del 29 gennaio 1997).

In secondo luogo, un altro aspetto fondamentale da considerare è quello relativo al significato del concetto di cospetto, laddove, al fine della configurazione del reato, quest’ultimo debba realizzarsi al cospetto – appunto –  del corpopolitico, amministrativo o giudiziario.

Nello specifico, è necessario sottolineare come ciò rappresenti una ulteriore differenza tra l’art. 341-bis (“Oltraggio a un pubblico ufficiale”) e l’art. 342 (“Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”) codice penale.

Infatti, la presenza del pubblico ufficiale, presupposto del reato di cui all’art. 341, è un concetto differente rispetto al cospetto richiesto invece dal reato di cui al citato art. 342.

La presenza richiesta dalla prima norma prescinde dal contatto fisico o anche semplicemente visivo ed è estesa ad un ambito spaziale tale da consentire al pubblico ufficiale la semplice possibilità di percepire l’espressione oltraggiosa.

In particolare, con riferimento al concetto di presenza, la Suprema Corte dichiara che “in tema di oltraggio, l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale deve avvenire alla presenza di almeno due persone, tra le quali non possono computarsi quei soggetti che, pur non direttamente attinti dall’offesa, assistano alla stessa nello svolgimento delle loro funzioni, essendo integrato il requisito della pluralità di persone unicamente da persone estranee alla pubblica amministrazione (ossia dai “civili”), ovvero da persone che, pur rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale, siano presenti in quel determinato contesto spazio-temporale non per lo stesso motivo d’ufficio in relazione al quale la condotta oltraggiosa sia posta in essere dall’agente.” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 6604 del 18 gennaio 2022; Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 30136 del 9 giugno 2021).

Essa dunque va ben oltre la possibilità di visione diretta e reciproca del soggetto attivo e di quello passivo espressa dal sostantivo cospetto.

D’altronde, il cospetto, richiesto dall’art. 342, presuppone, invece, “la contemporanea presenza, reciprocamente avvertita, nel medesimo luogo, fronte a fronte, del soggetto attivo e del corpo politico, amministrativo o giudiziario ovvero di una rappresentanza di esso, riuniti in forma propria e solenne, quale ad esempio, con riferimento ad un corpo di polizia, un picchetto d’onore, la banda musicale, un qualsiasi reparto organico schierato o adunato nel corso di una cerimonia o per l’adempimento di funzioni sue proprie, ipotesi di fatto queste ben diverse dalla presenza sparsa e dispersa tra la folla di diversi appartenenti al Corpo, come singoli comandati e impegnati in servizio d’ordine in un determinato luogo” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 9417 del 1995).

Quanto al disposto di cui al secondo comma dell’art. 342 codice penale, i Giudici di legittimità chiariscono che, “qualora l’oltraggio ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario venga consumato, come prevede l’art. 342, comma secondo, con uno scritto diretto al Corpo, alla rappresentanza o al collegio, non è necessario che esso avvenga al ‘cospetto’ di questi ultimi, cioè mentre essi si trovino nell’esercizio delle funzioni” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 2804 del 25 gennaio 2007).

In terzo luogo, la condotta incriminata è rappresentata dall’offesa all’onore o al prestigio, laddove per onore si intende l’insieme delle qualità morali di una persona e per prestigio la dignità e il rispetto dovuti a chi esercita pubbliche funzioni.

Infine, quanto all’elemento soggettivo, è richiesto il dolo generico, il quale consiste nella “volontà di pronunciare la frase offensiva con la consapevolezza a ledere l’onore e il prestigio del corpo, a nulla rilevando un eventuale stato di risentimento o di reazioni emotive del soggetto, cagionato da presunte ingiustizie subite” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 3606 del 12 maggio 1986).

La vicenda

Il caso di specie riguarda la commissione del delitto di cui all’art. 342, secondo comma, codice penale, a seguito dell’invio da parte di un soggetto di diverse mail contenenti gravi offese agli appartenenti al corpo di Polizia locale, agli account ufficiali di soggetti istituzionali quali Polizia locale, Prefettura e Comune.

L’autore della condotta materiale è stato condannato sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte d’Appello, la cui sentenza è stata poi impugnata dinanzi alla Suprema Corte, la quale ha altresì rigettato il ricorso, considerando i motivi alla sua base inammissibili, condannando quindi il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

I quattro motivi dedotti dal ricorrente sono i seguenti:

  1. l’adesione della sentenza ad un orientamento giurisprudenziale minoritario, senza tenere conto di quello invocato dalla difesa, peraltro maggioritario, secondo il quale la fattispecie penale consumatasi per iscritto è integrata solo quando l’offesa pervenga al Corpo riunito nello svolgimento delle sue funzioni e alla presenza del soggetto attivo, circostanze non sussistenti nel caso di specie in quanto la mail è stata inviata al solo titolare dell’indirizzo di posta elettronica”;
  2. la violazione di legge in ordine alla configurazione dell’elemento materiale del reato costituito dall’avvenire l’offesa ‘al cospetto’ del Corpo che ne è destinatario, non bastando la mera possibilità che i componenti di questo ne vengano a conoscenza o che essa sia rivolta al singolo componente, come avvenuto con le mails oggetto di contestazione”;
  3. la violazione di legge per mancato accertamento dell’elemento soggettivo non bastando l’esistenza delle espressioni offensive”;
  4. la violazione di legge in ordine all’esistenza della scriminante del diritto di critica, anche in forma putativa, in quanto la volontà del ricorrente era solo quella di ristabilire la corretta azione dell’ufficio a fronte di comportamenti censurabili di alcuni appartenenti al Corpo”.

La decisione della Cassazione

Quanto al primo motivo, la Cassazione ha dichiarato che “le gravi e reiterate offese sono state rivolte, con linguaggio denso di insulti, tramite mails e dirette, in modo indiscriminato, al Corpo della polizia municipale [omissis], nel suo complesso, per la ritenuta cattiva e personalistica gestione dell’attività istituzionale demandatagli. […] L’art. 342 cod. pen. punisce l’oltraggio cosiddetto corporativo per tale intendendosi quello rivolto nei confronti della Pubblica amministrazione, anziché al suo singolo funzionario, tale da lederne la personalità di ente collegiale”, confermando, quindi, l’orientamento indicato sopra inerente alla qualità del soggetto passivo.

Ancora, la Corte, nella disamina del secondo motivo, ha richiamato gli orientamenti giurisprudenziali già menzionati. In particolare, ha sostenuto che “detta fattispecie di reato può compiersi anche non alla presenza del Corpo oltraggiato quando venga consumata – come nella specie – con uno scritto”, specificando quindi che, a differenza di quanto richiesto dal primo comma, per cui “l’offesa avviene ‘al cospetto del Corpo, della rappresentanza o del Collegio, per tale intendendosi il momento in cui questo si trova nell’esercizio delle funzioni”, la forma del delitto richiesta dal secondo comma richiede che l’offesa sia “commessa “a causa delle funzioni” dell’autorità oltraggiata per la quale non è necessario che questa stia svolgendo l’attività istituzionalmente riconosciutale proprio in ragione del mezzo utilizzato (telegrafo, scritto o disegno)”.

Quanto al motivo concernente l’elemento psicologico del reato, costituito dal dolo generico, la Corte – al pari di quanto sostenuto dai giudici precedenti – ha ritenuto sussistente la volontà del ricorrente di offendere consapevolmente l’onore ed il prestigio della polizia municipale, proprio in considerazione del linguaggio utilizzato nelle mail oggetto della contestazione, con valenza obiettivamente denigratoria.

Infine, il Supremo Consesso – in ordine all’ultimo motivo – ha delucidato il rapporto tra il delitto in questione e la scriminante deldiritto di critica.

La scriminante del diritto di critica e i suoi limiti

In linea generale, il diritto di critica rientra nella categoria delle scriminanti (o cause di giustificazione), le quali presuppongono situazioni che – in quanto consentite dalla legge – comportano la liceità penale di un fatto che generalmente rappresenta una fattispecie incriminatrice.

Nello specifico, esso è ricompreso nelle ipotesi di cui all’art. 51 codice penale, integrando l’ipotesi dell’esercizio di un diritto.

Il suo fondamento si rinviene nell’art. 21 della Costituzione, ossia nel diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, il quale non solo viene compreso tra i diritti inviolabili dell’uomo, di cui all’art. 2 della Carta costituzionale (Corte cost., sentenza n. 126 del 29 aprile 1985; Corte cost., sentenza n. 112 del 24 marzo 1993), ma viene altresì considerato “il più alto, forse” tra i “diritti primari e fondamentali” sanciti dalla Costituzione (Corte cost., sentenza n. 168 del 8 luglio 1971), con la conseguenza che la Repubblica ha il dovere non solo di non comprimerlo, ma anche di garantirlo nei reciproci rapporti interpersonali, considerando che “nessuno possa recarvi attentato senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale” (Corte cost., sentenza n. 122 del 9 luglio 1970).

Quanto alla critica, essa costituisce dunque la manifestazione di una opinione caratterizzata da connotazioni soggettive, comprendendo anche la rappresentazione di sentimenti o di stati passionali i quali non possono essere sempre obiettivi; o meglio, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 199 del 14 dicembre 1972, essa rappresenta una “libera dialettica delle idee”, che può altresì essere rivolta alle istituzioni vigenti, affinché lo Stato democratico da essa tragga alimento “per assicurare […] l’adeguamento delle medesime ai mutamenti intervenuti nella coscienza sociale”.

Pertanto, la tutela costituzionale copre “la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell’assetto politico sociale sul piano ideologico” (Corte cost., sentenza n. 126 del 29 aprile 1985).

Tuttavia, anche l’esercizio del diritto di critica non può oltrepassare determinati limiti.

In primo luogo, l’art. 21 prevede espressamente come unico limite, del più ampio diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, la non contrarietà (delle pubblicazioni a stampa, degli spettacoli e di tutte le altre manifestazioni) al “buon costume”, ossia al comune senso del pudore e alla pubblica decenza. A questo successivamente, sono stati affiancati altri limiti tra cui la riservatezza e l’onorabilità delle persone, il segreto di Stato, il segreto giudiziario e l’apologia di reato.

Quanto all’esercizio dello specifico diritto di critica, esso si considera legittimamente esercitato, “purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale” (Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 4530 del 2 febbraio 2023; Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 41767 del 30 ottobre 2009).

Tuttavia, è da considerare che la critica non è finalizzata ad informare, ma solamente a stimolare un dibattito. Pertanto, trattandosi di una opinione sprovvista quasi sicuramente del carattere di oggettività, l’elemento della verità del fatto narrato è da intendersi solo nel senso che deve riferirsi ad un fatto storicamente vero o ad un evento realmente accaduto.

Sullo stesso piano, è da porre l’elemento del pubblico interesse, in quanto il diritto di critica non è considerato legittimamente esercitato, se trattasi di una mera valutazione critica su fatti privati o comunque privi di interesse per la collettività, ossia “quando l’agente trascenda ad attacchi personali, diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato” (Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 3477 del 8 febbraio 2000).

Il rapporto tra l’oltraggio e la critica

Il rapporto tra il delitto di oltraggio ex art. 342 codice penale e il diritto di critica

Quanto al limite della continenza espositiva, esso rappresenta l’elemento chiave su cui si è basata la commentata decisione della Corte di cassazione, la quale si è altresì soffermata sul rapporto tra il diritto di critica e il delitto ex art. 342 codice penale.

In particolare, già la Corte costituzionale, in una delle sentenze sopra citate, afferma come “devono farsi rientrare nella stessa facoltà di critica le manifestazioni suscettibili di offendere il prestigio delle pubbliche autorità, fino a quando non varchino la soglia, oltre la quale ricadono nel vilipendio” (Corte cost., sentenza n. 199 del 14 dicembre 1972).

In tema di oltraggio, la Cassazione ravvisa altresì come “la facilità con cui vengono usate le espressioni più volgari ed il diffondersi di tale abitudine non tolgono alle espressioni stesse la loro obiettiva capacità di offendere l’altrui prestigio, mentre il dolo è implicito nel fatto stesso, qualora quelle espressioni presentino, per il loro chiaro significato, un valore offensivo preciso ed insuscettibile di interpretazioni ambigue” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 11396 del 10 novembre 1994).

Rilevano pertanto – ai fini dell’integrazione del delitto di oltraggio – tutte quelle espressioni idonee“a ledere il prestigio di cui devono essere circondate le persone che esercitano una pubblica funzione” (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 8304 del 05 settembre 1996), e che vanno costituire, in qualche misura, apprezzamenti diretti non all’attività svolta dall’autorità pubblica, ma alla sua qualità (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 7250 del 8 luglio 1986).

Nel caso in esame, la Suprema Corte, in primis, ribadisce che “l’oltraggio costituisce l’espressione di un giudizio negativo nei confronti dei soggetti istituzionali indicati dall’art. 342 cod. pen. e non può essere presidiato dall’art. 21 Cost. allorché si utilizzi un linguaggio intrinsecamente e volgarmente insultante e denigratorio, come nella specie”, per poi sostenere che nel caso di specie è evidente altresì “la natura offensiva degli scritti inviati dal [ricorrente], tale da travalicare il legittimo diritto di critica, in quanto con essi si sono messi in dubbio la competenza professionale e l’onestà di tutti gli appartenenti alla Polizia municipale [omissis], con dirette e generiche accuse di commissione di gravi delitti contro la pubblica amministrazione”.

Nello specifico, infatti, le mail inviate dal ricorrente contenevano offese del tipo: “criminali”, “un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e all’abuso di ufficio, al servizio di un’oligarchia che controlla tutta la locale pubblica amministrazione, e persegue interessi privati in spregio di quello pubblico”, “delinquenti in divisa”, et similia.

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