Evoluzione dell’assegno divorzile sino all’odierna disamina di rilevanza della convivenza prematrimoniale

Premessa

L’assegno divorzile, come obbligo economico posto a carico di un coniuge e a beneficio dell’altro, è una frequente conseguenza patrimoniale del divorzio.

Si tratta di un’evenienza in grado di incidere in maniera più o meno consistente nella vita delle persone, e di uno strumento giuridico che, nel tempo, ha subito un’evoluzione normativa ed interpretativa a far data dalla prima riforma del 1987 alla legge sul divorzio, passando per la nota pronuncia, n. 18287/2018, della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sino a giungere ai successivi sviluppi della stessa.

La progressione ermeneutica dell’istituto ha riguardato, in buona sostanza, i presupposti per il suo riconoscimento e i criteri per la sua determinazione.

Il presente lavoro presenta una panoramica dell’evoluzione dell’assegno divorzile, sino all’odierna disamina di rilevanza della convivenza prematrimoniale.

Articolo 5, comma 6, Legge n. 898/1970, vecchia formulazione

La formulazione originaria della norma[1]prevedeva da un lato i criteri che il Giudice doveva seguire per valutare il diritto a vedersi attribuire l’assegno, ovvero “le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione”, dall’altro quelli per determinarne l’importo, come “il contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi all’interno della famiglia.

Nell’ambito dei criteri non vi era una gerarchia, ma una sorta di coesistenza e di assenza di diversificazione tra la fase di valutazione dell’attribuzione dell’assegno (an debeatur) e quella di quantificazione (quantum debeatur).

Secondo tale impostazione il Giudice, chiamato a decidere in merito all’assegno divorzile, doveva tenere conto, senza che il processo decisionale fosse diviso per fasi, “delle condizioni economiche dei coniugi” e “delle ragioni della decisione”,nonché del “contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi”.

In relazione a questi tre elementi, la Corte di Cassazione aveva elaborato la cosiddetta teoria della “natura composita” dell’assegno divorzile, ritenendo che avesse contemporaneamente natura “assistenziale, risarcitoria e compensativa.

Ciò lo si evince dalla chiara lettera della sentenza, a Sezioni Unite, n. 2008 del 9 luglio 1974, in base alla quale “L’assegno di divorzio non ha natura alimentare, ma ha natura composita: con funzione assistenziale (in quanto, attraverso la considerazione delle condizioni patrimoniali dei coniugi, tutela quello la cui situazione patrimoniale si sia deteriorata per effetto dello scioglimento del matrimonio), risarcitoria (in quanto, avendo riguardo alle ragioni della decisione, attribuisce rilievo, agli effetti patrimoniali, alla responsabilità per il fallimento del matrimonio) e compensativa (in quanto, mediante il riferimento al contributo dei coniugi alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di entrambi, e diretto a compensare l’impegno personale e gli apporti economici prestati in vista del benessere della famiglia). Gli elementi su indicati operano sia come criteri di attribuzione sia come parametri di determinazione e vanno tutti esaminati, con riguardo alla posizione di entrambe le parti”.

Il Giudice godeva di ampio potere discrezionale perché, seppure nessuno di questi tre profili potesse essere ignorato, era possibile attribuire preminenza ad uno piuttosto che ad un altro dei fattori in questione.

La dottrina[2] evidenziò tale criticità e sorse dunque l’esigenza di una riforma che tenesse in debito conto dell’evoluzione della società civile e del ruolo della figura femminile all’interno della famiglia.

Articolo 5, comma 6, come modificato dalla Legge n. 74/1987

La riforma ha apportato modifiche alla formulazione dell’art. 5, comma 6 della Legge sul divorzio che ora dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Appare subito evidente come il legislatore, nel prevedere espressamente “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”, abbia voluto determinare i due momenti del processo di valutazione, ovvero quello circa l’“an debeatur” ancorato alla sussistenza dei mezzi ed il successivo “quantum debeatur”.

Tale distinzione, ma soprattutto la concreta individuazione del parametro dei “mezzi adeguati” ha comportato il fiorire di due orientamenti giurisprudenziali di legittimità completamente opposti.

Il primo, avallato dalla sentenza n. 1652/1990, resa a Sezioni Unite, riconduceva il criterio dell’adeguatezza dei mezzi alla possibilità del coniuge richiedente di avere una esistenza libera e dignitosa, intesa come autonomia ed indipendenza economica, ciò senza compiere alcuna comparazione della situazione patrimoniale ed economica dei coniugi al momento della domanda di divorzio.

Il secondo filone, che seguiva l’orientamento della sentenza n. 1322/1990, sempre a Sezioni Unite, riconosceva invece all’assegno divorzile una natura meramente assistenziale, dal momento che il presupposto per il suo riconoscimento era la prova dell’insussistenza, per il richiedente, di risorse atte a consentire un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Trattasi del cosiddetto criterio del “tenore di vita”.

Una volta acclarata tale previa condizione, si procedeva quindi all’indagine circa gli ulteriori criteri (durata del matrimonio, condizioni dei coniugi, etc.) aventi il precipuo fine di determinare il quantum dell’assegno.

Il criterio del “tenore di vita” ha ricevuto, sin da subito, critiche da parte della dottrina[3], essendo sin troppo evidente la considerazione che il tenore di vita di due persone che convivono e uniscono le proprie risorse difficilmente potesse conservarsi nel momento in cui l’unione coniugale venisse meno.

Tuttavia, tale orientamento è prevalso dal 1990 in poi, per essere superato solo dalla “sentenza Grilli[4] ove veniva espressamente fatto riferimento, per la prima volta, all’estinzione” del rapporto matrimoniale, sia sul piano dello status personale, per cui il coniuge ritorna “persona singola”, sia sul piano dei rapporti patrimoniali. Da ciò ne conseguiva che non vi era più ragione per tenere in vita obblighi patrimoniali, quali quelli afferenti al tenore di vita, legati ad uno status, quello di coniuge, che ormai non vi era più.

La Corte di Cassazione, in tale sentenza, ha espressamente evidenziato che lo “scopo del contributo mensile successivo al divorzio non è più garantire lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma solo l’autosufficienza economica”.

Il percorso per il riconoscimento dell’assegno divorzile ha conservato la natura meramente assistenziale e continua a seguire due fasi: la prima, volta alla valutazione della sussistenza del diritto all’assegno divorzile sulla base del fatto che il coniuge più debole non disponga di mezzi adeguati e non possa procurarseli per ragioni oggettive, e la seconda finalizzata alla quantificazione dell’assegno sulla base degli altri criteri indicati dall’art. 5.

L’impostazione che è seguita alla “sentenza Grilli” ha subito numerose critiche, non solo riguardo all’argomentazione per cui l’assegno, avendo natura meramente assistenziale, fosse correlato alla condizione dell’ex coniuge svincolata dal rapporto matrimoniale, ma altresì per il fatto che gli altri criteri divenivano, di fatto, residuali a dispetto della formulazione dell’art. 5 Legge n. 89/1970.

Nuovi criteri alla luce della sentenza a SS.UU. n. 18287/2028

Il contrasto giurisprudenziale, creatosi dopo la “sentenza Grilli”, è stato risolto dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la celebre sentenza n. 18287/2018, dove si afferma che, all’assegno divorzile, va riconosciuta una funzione non soltanto “assistenziale”, ma anche “compensativa e perequativa” rispetto ad eventuali sacrifici da parte del coniuge più debole in termini di affermazione professionale o di crescita reddituale, dando rilievo al contributo apportato dall’ex coniuge, richiedente, alla formazione del patrimonio personale dell’altro coniuge.

Si è così voluto abbandonare la mera funzione assistenziale dell’assegno divorzile, per privilegiare una funzione composita: assistenziale, compensativa, perequativa.

È evidente come la Cassazione, a differenza di quanto enucleato nella “sentenza Grilli”, non pone una linea di demarcazione tra la vita matrimoniale e quella successiva, al contrario tiene conto delle decisioni prese dai coniugi di comune accordo in relazione alla conduzione della vita familiare che possono incidere assai profondamente sul loro profilo economico-patrimoniale dopo la fine del rapporto.

Si pensi ad esempio all’ex coniuge che abbia rinunciato alla carriera professionale per prendersi cura dei figli e della famiglia e che, al momento del divorzio, difficilmente potrà ricollocarsi nel mondo del lavoro o ricoprire importanti ruoli per aver perso ogni occasione di fare carriera.

In definitiva, il riconoscimento dell’assegno divorzile richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, tenuto conto del contributo fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale degli ex coniugi ed avendo riguardo alle suindicate circostanze.

In base a tale orientamento, ancora oggi seguito dai Tribunali, il procedimento per decidere sull’assegno di mantenimento si svolge secondo i seguenti passaggi:

– indagine sulle condizioni economiche dei coniugi;

– verifica della disparità reddituale dei coniugi;

– indagine circa la causa della disparità reddituale e, in particolare, se la stessa derivi da scelte condivise compiute dagli ex coniugi;

– valutazione del contributo dato dal richiedente l’assegno al nucleo famigliare e al patrimonio familiare;

– condizioni personali del richiedente quali lo stato di salute, l’età, la capacità lavorativa;

– durata del vincolo matrimoniale.

La portata della sentenza del 2018 ha prodotto un effetto dirompente nelle aule giudiziarie. L’applicazione del nuovo principio ha trovato spazio non solo nei ricorsi introdotti dopo la sua pronuncia, ma anche nei procedimenti già definiti e per i quali si è visto fare ricorso per la riforma delle sentenze.

Del resto, la giurisprudenza si è espressa in senso favorevole al fatto che “è evidente che ci siano giudizi iniziati sotto il vigore delle vecchie regole, ma che, se ci si vuole attenere al dictum delle Sezioni Unite, devono oggi essere definiti sulla scorta della regola da questa affermata”.[5]

Orientamento post sentenza a SS.UU. n. 18287/2018

Successivamente alla novità recata dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 18287/2018, la prassi adottata dai Tribunali, nel pronunciarsi circa l’assegno divorzile, è stata quella di dare importanza, in primo luogo, all’indagine in ordine alla disparità e allo squilibrio patrimoniale tra i coniugi, per poi passare all’esame della causa in concreto di tale disparità.

Una volta compiuto tale disamina esame ed accertato tale squilibrio, il Giudice è chiamato a compiere un’altra valutazione, ovvero quella inerente alla verifica della concreta impossibilità, per il coniuge svantaggiato, di colmare tale divario ovvero indagare se le condizioni di età, genere e sociali impediscano, di fatto, un suo ricollocamento nel mondo del lavoro.

Seppur sicuramente innovativo e rispondente al principio costituzionale di solidarietà, il nuovo orientamento giurisprudenziale non è tuttavia risultato esente da un acceso dibattito dottrinale.

Parte della dottrina sostiene che l’assegno divorzile non possa avere solo funzione assistenziale[6], in contrasto con altra parte della dottrina secondo cui la considerazione, che il detto assegno debba rivestire unicamente la finalità assistenziale, derivi dal passaggio in cui la Suprema Corte afferma “il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l’esistenza e l’entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l’obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco. All’esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell’assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro”.

In proposito, la critica mossa alla Suprema Corte consiste nel ragionamento secondo cui, concentrando l’attenzione sulla sola ipotesi in cui l’assegno deve essere riconosciuto in funzione perequativa e/o compensativa – ossia implicitamente finendo per ammettere che, assolta tale funzione, si possa considerare soddisfatta, in re ipsa, anche quella assistenziale -, le sezioni Unite trascurerebbero di dare al giudice indicazioni nel caso di attribuzione dell’assegno con funzione meramente assistenziale.

Più esplicitamente, il riferimento è all’ipotesi in cui emerga che, seppur vi sia disparità patrimoniale, questa non trovi causa nelle scelte condivise tra i coniugi, oppure al caso in cui tale disparità sia preesistente al matrimonio.

Il giudice non può negare per tali motivi l’assegno, proprio perché questo non ha funzione solo perequativa o compensativa, ma anche assistenziale, dunque dovrebbe stabilire se l’assegno deve essere comunque riconosciuto in funzione solo assistenziale, in virtù del principio di solidarietà post-coniugale e del diritto di assicurare la dignità della persona che è stata parte della famiglia quale formazione sociale, garantiti dalla Costituzione.

Tale dottrina è rimasta minoritaria e le recenti sentenze della Corte di Cassazione tendono ad escludere che l’assegno divorzile possa essere riconosciuto con finalità meramente assistenziale[7], evidenziando come le funzioni assistenziale, perequativa e compensativa costituiscono, in posizione pari ordinata, i parametri cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno.

Rilevanza della convivenza prematrimoniale

La famiglia manca di una definizione all’interno del nostro ordinamento, nonostante la normativa nazionale e costituzionale ne faccia spesso riferimento. Tradizionalmente l’unico modello di famiglia riconosciuto era quello fondato sul matrimonio.

Al giorno d’oggi l’evoluzione sociale ha portato a dover riconoscere fattispecie che, seppur non fondate sul matrimonio, hanno con la famiglia tradizionale elementi comuni.

Il fenomeno della convivenza prematrimoniale è via via divenuto sempre più radicato nei comportamenti della nostra società, tanto più che tale costume ha trovato riconoscimento normativo con la Legge n. 76/2016 (detta “Cirinnà”) che attribuisce rilevanza alla convivenza di fatto tra due persone, prevedendo la possibilità di stipulare un contratto di convivenza per la regolamentazione degli aspetti patrimoniali.

In relazione alla fine della convivenza, la prefata legge dispone la corresponsione dell’assegno alimentare, per un periodo proporzionato alla durata della convivenza, qualora uno dei conviventi non possa provvedere a sé stesso per ragioni oggettive. L’importo di tale assegno non può superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, considerando anche la sua posizione sociale, secondo i parametri di cui all’art. 438 c.c.

Il riconoscimento di tale diritto, nel caso di convivenza more uxorio, non poteva non far nascere la questione della rilevanza della convivenza prematrimoniale ai fini dell’assegno divorzile.

Se infatti viene affermato il diritto di uno dei conviventi ad un assegno alimentare, nel momento in cui l’unione viene meno, ci si è interrogati sulla valenza che potesse avere la convivenza prematrimoniale nella determinazione dell’assegno divorzile, ove alla convivenza segua il matrimonio.

Tale questione è giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il caso traeva origine da una sentenza della Corte d’Appello di Bologna che, nella fattispecie di una coppia che aveva a lungo convissuto prima di contrarre matrimonio, riduceva l’assegno divorzile stabilito dal Tribunale in favore della moglie.

La moglie ricorreva in Cassazione che, con ordinanza interlocutoria, decideva di rimettere la questione al Primo Presidente, affinché potesse valutare un’eventuale rimessione alle Sezioni Unite sulla vicenda.

In particolare, dal contenuto dell’ordinanza emergeva la necessità di chiarire l’esclusione, ai fini della commisurazione dell’assegno divorzile, del periodo di convivenza prematrimoniale, così come deciso dai giudici bolognesi di secondo grado.

Rimessa la questione alle Sezioni Unite, con sentenza n. 35385 del 18 dicembre del 2023, il Supremo Consesso ha sottolineato l’importanza della convivenza prematrimoniale “laddove protrattasi nel tempo (nella specie, sette anni), abbia consolidato una divisione dei ruoli domestici capace di creare scompensi destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio”.

Si tratta dunque di considerare il matrimonio come l’unico fattore generatore della crisi coniugale e di attribuire rilievo all’aspetto precedente della convivenza come indice compensativo e valoriale dell’assegno.

L’interessante principio di diritto, elaborato dalle Sezioni Unite è il seguente “ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, Legge n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase ‘di fatto’ di quella medesima unione e la fase ‘giuridica’ del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

Alla luce di quanto esposto, è chiaro ed evidente come il diritto di famiglia sia strettamente legato all’evoluzione della società, della cultura e della morale.

L’intervento della giurisprudenza si è reso, da sempre, necessario per tenere il passo rispetto a tale evoluzione che, tuttavia, è talmente ormai repentina da far sì che la sola opera ermeneutica di adeguamento risulta non più sufficiente e spesso in affanno rispetto alla progressione delle dinamiche della vita reale, appalesandosi sempre più essenziale e ineludibile un intervento del legislatore finalizzato ad una vera e propria riforma organica dell’assegno divorzile.


[1] Il testo originario dell’art. 5, comma 6 della Legge n. 898 del 1970 aveva il seguente contenuto: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione”.

[2] QUADRI Enrico, La nuova legge sul divorzio, I, Jovene, Napoli, 1987, pagg. 284 e segg.

[3] BONILINI Giovanni – NATALE Andrea, L’assegno post-matrimoniale, nel Trattato di diritto di famiglia (diretto da Bonilini G.), Utet, Torino, 2015, pagg. 2887 e segg.

[4] Cass. civ. n. 11504/2017.

[5] Cass. civ. n. 11178/2019.

[6] RIMINI Carlo, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, nota a Cassazione civile, Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 e a Cassazione civile, Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196, in La nuova giurisprudenza civile commentata (ISSN: 1593-7305), 2017, 9, pagg. 1274 e segg.

[7] Cass. civ., Sez. I, Ord.15 marzo 2024, n. 7069; Cass. civ., Sez. I, Ord. 9 febbraio 2024, n. 4328.

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