L’opacità del “km zero”: l’etichettatura dei prodotti alimentari “da filiera corta”

Introduzione

Nel corso degli anni Settanta, periodo in cui le istanze del movimento ambientalista hanno iniziato ad ottenere credito a livello istituzionale, la comunità scientifica ha iniziato ad interrogarsi sull’opportunità di integrare i principi della tutela dell’ambiente all’interno delle politiche economiche dei paesi industrializzati.

In particolare, il chimico James Lovelock, evidenziando la profonda interazione tra il benessere dell’uomo, del mondo animale e dell’ambiente, si è fatto portavoce di una concezione olistica della sostenibilità che, oltre a ricalcare fedelmente il cosiddetto approccio One Health (elaborato solo recentemente dalle Nazioni Unite), è rivolta direttamente al legislatore, chiamato a considerare l’impatto che ogni atto umano produce sulla salubrità dell’ambiente e sulla tenuta degli ecosistemi; secondo lo scienziato, la cura per la terra non passa attraverso l’alta scienza, o almeno non solo, ma dipende dal comportamento del singolo cittadino chiamato ad atteggiarsi come un medico verso il paziente1.

Nel corso dei decenni a seguire, la responsabilizzazione delle scelte individuali ha assunto un rilievo sempre crescente soprattutto nelle misure adottate per la regolazione di uno dei comparti più inquinanti per l’ecosistema e di maggiore impatto sulla salute dell’intera collettività: quello agroalimentare.

Tuttavia, la reale consapevolezza delle esternalità negative prodotte dal settore in oggetto è maturata solo a seguito di una serie di episodi eclatanti di contraffazione alimentare e di emergenze sanitarie verificatesi a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, scandali che hanno profondamente condizionato l’opinione pubblica, sempre più tesa a ricercare la garanzia della sicurezza e della sostenibilità degli alimenti acquistati.

In questo contesto, l’etichetta inizia ad essere concepita non più come un mero insieme di informazioni obbligatorie riportate sull’imballaggio per soddisfare requisiti normativi di base, ma come un mezzo attraverso il quale i produttori possono comunicare la naturalità o l’artigianalità del prodotto, fornendo indicazioni dettagliate (e auspicabilmente veritiere) sul processo di produzione e sulle qualità nutrizionali. In altre parole, le etichette si sono progressivamente affermate sia come strategia di marketing che come strumento in grado di costruire un legame di fiducia tra stakeholder e consumatore, così da rafforzare l’impegno imprenditoriale verso un’agricoltura sostenibile2.

Il greenwashing tra le pratiche commerciali scorrette

Tuttavia, il marketing ambientale corrisponde solo di rado alla effettiva realtà produttiva: sempre più comuni sono i fenomeni di greenwashing, una pratica commerciale sleale volta ad ingenerare nel consumatore l’erronea convinzione che un bene alimentare sia prodotto in modo da rispettare l’ambiente o che abbia caratteristiche tali da renderlo meno dannoso rispetto ai concorrenti attraverso l’inserzione di diciture eccessivamente generiche, non attendibili né verificabili.

Questi “green claims” – o asserzioni ambientali generiche veicolate dal packaging del prodotto alimentare – sono basate su standard elaborati da soggetti privati, la cui legittimazione deriva solo dalla reputazione sul mercato, e non da organismi pubblici di normazione (come ISO o EMAS) che si servono di meccanismi di verifica e modelli di certificazione regolamentati3.

Considerata la facilità con cui possono essere apposti sulle superfici stampabili degli imballaggi, le asserzioni generiche hanno visto una crescente diffusione negli ultimi decenni, generando, da un lato, un profondo senso di sfiducia da parte dei consumatori, i quali non hanno le competenze necessarie per distinguere la vera sostenibilità dalle operazioni di marketing e, dall’altro, alterazioni del funzionamento concorrenziale del mercato.

Il problema è stato avvertito dalla Commissione europea che, già nel 2013, con la Comunicazione “Costruire il mercato unico dei prodotti verdi. Migliorare le informazioni sulle prestazioni ambientali dei prodotti e delle organizzazioni” (COM 2013/196 Def), ha individuato metodologie di misurazione delle prestazioni ambientali dei prodotti (come la Product Environmental Footprint – PEF) e delle organizzazioni (Organisation Environmental Footprint – OEF) incoraggiando il settore privato ad utilizzare questi approcci per evitare di fornire indicazioni non riscontrabili scientificamente o addirittura non veritiere.

Più di recente, la strategia “Farm to Fork” (F2F)4 ha promosso iniziative volte ad individuare metodologie di misurazione delle prestazioni ambientali dei prodotti, elaborando un codice di condotta volontario rivolto a tutte le aziende attive nei sistemi alimentari. Inoltre, attraverso la detta strategia, la Commissione aveva espresso l’intenzione di promuovere, entro l’anno corrente, “l’apposizione di un’etichettatura sulla parte anteriore dell’imballaggio obbligatoria e armonizzata”, valutando anche “la possibilità di proporre l’estensione a determinati prodotti dell’obbligo di indicazione di origine o di provenienza tenendo pienamente conto degli impatti sul mercato unico”, così come “possibili modalità per l’armonizzazione delle dichiarazioni ambientali volontarie per la creazione di un quadro per l’etichettatura di sostenibilità che contempli gli aspetti nutrizionali climatici ambientali e sociali dei produttori alimentari5.

Il contenuto della Comunicazione, di per sé non vincolante per gli Stati membri, è stata tradotta (almeno parzialmente) in atto normativo dalla Direttiva 824/2024/UE, cosiddetta “Direttiva sul greenwashing”. Questa, nel modificare la Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commercial sleali, ha introdotto divieti e obblighi generici di trasparenza in materia di claims ambientali e di sostenibilità in ogni settore produttivo (incluso quello agroindustriale) che saranno verosimilmente recepite negli ordinamenti nazionali entro il 2026.

Tra le principali novità, si annovera l’estensione dell’elenco delle pratiche considerate in ogni caso sleali – denominata “lista nera” – contenute nell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, includendovi, ad esempio, “l’esibizione di un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche” (per cui è necessario che il marchio soddisfi requisiti minimi di trasparenza e credibilità, effettuando un controllo obiettivo della conformità del marchio ai requisiti del sistema di certificazione) o la “formulazione di un’asserzione ambientale generica in assenza di un’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione” (ad esempio: ‘rispettoso dell’ambiente’; ‘amico della natura’; ‘ecologico’).

La Direttiva 825/2024/UE ha, dunque, inteso contrastare la diffusione dei green claims introducendo l’obbligo, per i produttori che intendono esibire un’asserzione di sostenibilità, di utilizzare un marchio stabilito dalle autorità pubbliche (ad esempio in Italia, il marchio “Made Green in Italy”), oppure garantirla mediante un sistema di certificazione, fondato su livelli standard, accessibili a tutti gli operatori, connotati da condizioni eque, trasparenti, non discriminatorie, esito di consultazioni con gli esperti del caso e i portatori di interessi.

Tuttavia, se è vero che per la certificazione di produzione biologica esistono specifici sistemi di certificazione volti ad assicurare la veridicità delle informazioni riportate in etichetta, non può dirsi altrettanto per le certificazioni della filiera corta, i cosiddetti “prodotti a km 0”, tra i green claims maggiormente diffusi.

La zona d’ombra” del km zero

Come si accennava, nel quadro della Strategia “F2F”, la Commissione ha paventato la possibilità di estendere l’etichettatura di origine obbligatoria a determinati prodotti aggiuntivi, “tenendo conto dell’impatto sul mercato unico”.

Sebbene la Direttiva 825/2024/UE, le cui disposizioni sono specificamente mirate a contrastare il fenomeno del greenwashing, avrebbe rappresentato l’occasione ideale per promuovere la diffusione dell’etichetta di origine obbligatoria e per contrastare l’incontrollato utilizzo dell’asserzione “a km 0”, nulla è stato fatto in tal senso. Ad oggi non esiste un sistema di certificazione specifico (come ISO o Emas) né degli standard definiti per garantire che i prodotti siano effettivamente da filiera corta come indicato in etichetta e le certificazioni esistenti (DOP, IGP, ecc.) e gli schemi locali offrono solo soluzioni parziali.

Ma cosa si intende, effettivamente, per filiera corta? Non è semplice darne una nozione univoca perché non è solo il parametro geografico (food miles) a dover essere considerato; certamente l’indicazione in etichetta della distanza tra il luogo di produzione e luogo di vendita ha un elevato impatto comunicativo, ma rischia di trasmettere un’informazione incompleta rispetto alla complessità dei fattori che determinano la prossimità del prodotto.

Il concetto di filiera corta, infatti, incorpora almeno tre dimensioni della prossimità: i) la prossimità geografica; ii) la prossimità sociale; iii) la prossimità economica.

Mentre la prima misura la distanza fisica tra i produttori e i consumatori, la seconda e la terza implicano che la circolazione del valore del bene alimentare è circoscritta all’interno di una comunità o di un territorio.

È solo integrando la triplice dimensione della prossimità nelle strategie di marketing che gli agricoltori possono: i) invertire la tendenza alla riduzione della biodiversità, promuovendo prodotti del territorio non commercializzati nelle filiere globali che, al contrario, incoraggiano a coltivare solo poche specie e varietà; ii) diminuire i costi energetici ed ambientali associati alla produzione agricola alla logistica del trasporto e alla distribuzione; iii) migliorare la capacità dei consumatori di acquisire informazioni riducendo la asimmetria informativa; al contrario, le filiere globali tendono a deresponsabilizzare i consumatori oscurando il costo ambientale e sociale delle merci; iv) trattenere una quota maggiore di valore aggiunto all’interno dell’economia locale.

Sarebbe, quindi, quanto meno opportuno introdurre un regime di etichettatura europeo relativo all’agricoltura locale. Già nel 2011, il Comitato delle Regioni aveva esortato la Commissione a munirsi di un sistema obbligatorio di controllo e di un nuovo logo d’identificazione per i prodotti locali6, ma si è preferito ricorrere a schemi di adesione volontaria.

E, anche a seguito dell’adozione della Strategia “F2F”, non ci sono state evoluzioni significative sul punto se non raccomandazioni e buone pratiche non vincolanti ma che possono indirettamente supportare la trasparenza e l’affidabilità delle informazioni sulla filiera corta.

Per ora, in Italia e nella gran parte degli Stati europei, la verifica della filiera corta si basa su una combinazione di certificazioni esistenti a livello locale – regionale, il cui organismo di controllo è spesso un consorzio locale o un’autorità regionale, e iniziative di privati.

Le aziende possono adottare certificazioni generiche di tracciabilità e qualità per supportare le loro dichiarazioni di filiera corta, mentre una nuova regolamentazione unitaria, a livello europeo, potrebbe emergere solo de jure condendo.

Conclusioni

Il fatto che non esista un organismo di controllo unico e centralizzato per i prodotti a chilometro zero si traduce nella sostanziale incertezza circa il numero effettivo di passaggi che il prodotto compie all’interno della filiera.

Il consumatore finale non ha dunque contezza della reale lunghezza della filiera e ciò non è privo di conseguenze: basti pensare a quanto disposto dal codice dei contratti pubblici (Decreto Legislativo, 31 marzo 2023, n. 36) all’art. 130, relativamente all’aggiudicazione dei servizi di ristorazione, nella parte in cui stabilisce che la valutazione dell’offerta tecnica tiene conto, tramite attribuzione di un punteggio premiale, “della qualità dei generi alimentari, con particolare riferimento (…) ai prodotti provenienti da filiera corta7.

Sul punto si rileva che, sebbene “spetti comunque alla discrezionalità della stazione appaltante, tanto determinare, quanto applicare, i criteri di volta in volta ritenuti più idonei per valutare l’offerta8, è pur vero che, ai fini della loro utilizzabilità, questi debbano essere “oggettivi, quali gli aspetti qualitativi, ambientali o sociali, connessi all’oggetto dell’appalto”.

L’impossibilità di fare riferimento a degli standard uniformi per qualificare un prodotto come di prossimità può, pertanto, produrre l’effetto di falsare indirettamente la concorrenza, portando la stazione appaltante a premiare un’offerta ritenuta di minor impatto per l’ambiente solo perché recante la dicitura a “chilometro zero”, senza aver alcuna garanzia circa l’effettiva provenienza del prodotto o di quanti “passaggi” questo abbia effettivamente compiuto da un operatore economico all’altro.

Proprio la mancata elaborazione di uno standard condiviso, il cui rispetto è valutato da organismi di certificazione indipendenti, si riflette non solo sulla credibilità dell’asserzione “prodotto a km 0” da parte dei consumatori ma finisce anche per tradire l’autonomia di scelta di un’eventuale amministrazione aggiudicatrice.


1 PETRINI Carlo, Bioetica, ambiente, rischio: evidenze, problematicità, documenti istituzionali nel mondo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ), 2003, p. 525.

2 BOLOGNINI Silvia, Le nuove etichettature ambientali, in Goldoni M., Sirsi E., Il ruolo del diritto nella valorizzazione o promozione dei prodotti agroalimentari, Giuffré, Milano, 2011, pp. 304 e ss.

3 LEONE Luca, Certificazioni etiche (lavoro ambiente religioni benessere animale), in P. Borghi P., Canfora I., Di Lauro A., Di Russo L., Trattato di diritto alimentare italiano e di diritto europeo, Giuffrè, Milano, 2021, p. 533.

4 Comunicazione “Una strategia “Dal produttore al consumatore “per un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente”, COM/2020/381 final.

5 Idem, cit. p. 15-16

6 Parere del Comitato economico e sociale europeo (CESE) “Promuovere filiere alimentari corte e alternative nell’Unione Europea: il ruolo dell’agroecologia” (2019/C 353/11).

7 Il Codice dei Contratti Pubblici, già nella sua versione previgente – Decreto Legislativo, 18 aprile 2016, n. 50, all’articolo 95, comma 13, stabilisce che i bandi di gara possono prevedere un maggior punteggio per l’offerta di beni o servizi con minore impatto sulla salute e sull’ambiente, compresi i prodotti che provengono da filiera corta. Similmente, l’art. 144, comma 1, prevede che, nelle procedure di affidamento del servizio di ristorazione collettiva, la stazione appaltante tenga conto del fatto che i prodotti provengono da filiera corta nella valutazione complessiva dell’offerta.

8 Sent. Corte Cost. n. 23, del 28 gennaio 2022, punto 14.3.2. e punto 21.3.2.

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