Il fondamento della famiglia romana è la potestà del pater familias: ne sono sottoposti – e pertanto fanno parte della familia – i figli nati dal matrimonio, ma anche quelli adottati (adoptio), i soggetti sui iuris che si sottopongono volontariamente alla patria potestas mediante l’istituto dell’adrogatio, e le donne (moglie, figlie, nipoti, nuore se sposate con filii familias in potestate).
Da ciò discende il carattere potestativo della familia, cui si accosta la spiccata connotazione patriarcale che si estrinseca nella preminenza dell’autorità dell’uomo sulla donna che può finanche essere uccisa impunemente dal marito, senza un regolare processo, ove sorpresa in flagrante adulterio (Catone il Censore).
La famiglia romana, in perfetta coerenza con i suindicati attributi, è patrilineare.
La linea di discendenza è quella paterna e si determina per via maschile, di padre in figlio (adgnatio).
I figli maschi nati al pater familias o ai suoi fratelli sono ad-nati, da cui la terminologia adgnati e agnati. Quelli nati dalle figlie femmine o dalle sorelle, sono solo partecipi della stirpe del pater familias, sono cum-nati, ossia cognati e appartengono giuridicamente alle famiglie dei loro padri o mariti. L’adgnatio può pertanto costituirsi per nascita (natura), o giuridicamente (iure) per adrogatio e per adoptio. Il termine cognatio indica invece in senso lato la parentela di sangue e in senso stretto la parentela per parte femminile.
La familia è infine patrilocale, in quanto la collocazione dei figli maschi, anche da sposati, se sottoposti ancora alla patria potestas, continua a permanere presso la casa del padre e con essi le loro mogli e i loro figli.
La familia romana ha pertanto struttura agnatizia e patriarcale e ciò è chiaro indice della subordinazione, non solo giuridica, ma anche antropologica, della donna.
La prevalenza indiscussa sulla figura femminile si estende anche alla morale coniugale. Il marito può tradire la propria moglie, anzi il contegno extraconiugale dell’uomo è considerato libero nel mondo antico greco-romano. Demostene ci ricorda che “abbiamo etère per il nostro piacere, concubine per i bisogni quotidiani del nostro corpo e mogli perché ci tengano la casa e ci diano figli legittimi”.
La donna pertanto può essere dedita al piacere carnale o alla cura dei bisogni quotidiani dell’uomo, o al governo della casa e alla procreazione. La funzione strumentale della medesima si appalesa in tutta sua drammatica e pervasiva ampiezza sociale. Non sembra ammissibile altro ruolo per la donna romana. Senza dubbio, la missione principale resta quella legata al contesto familiare. Educata ai valori del pudore, della sobrietà, della modestia e della riservatezza, la donna va in sposa molto giovane.
Cicerone, nel De Officiis (I.17.54), afferma: “Prima societas in ipso coniugio est; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae”.
Il matrimonio tra uomo e donna è considerato la prima forma di società e come tale costituisce il principio fondante la città ed il vivaio stesso dello Stato.
Il matrimonio è preordinato eminentemente alla procreazione (liberorum quarendorum causa) e l’esigenza della certezza della prole, soprattutto a fini successori, impone l’obbligo assoluto di fedeltà della donna, onde prevenire la turbatio sanguinis che consegue all’unione sessuale extraconiugale da parte della medesima. La soglia di tutela risulta molto estesa, con caratteri anticipatori e preventivi rispetto ai fatti da scongiurare, conducendo a sanzionare la donna quando si pone in atteggiamenti anche soltanto pericolosi: recarsi da sola a pubblici spettacoli, bere vino, o, come ci ricorda Plutarco, addirittura il semplice rubare la chiave della cella vinaria.
L’accertamento della violazione commessa dalla donna avviene dinanzi al Magistrato, lasciando l’esecuzione della sanzione ad opera dell’uomo che abbia su di lei la potestas o la manus maritale, salvo nei casi di scandalo pubblico o maggiore rilevanza sociale, ove resta riservata, a fini di più efficace deterrenza, all’autorità per essere particolarmente esemplare.
Vi è di fondo un articolato pregiudizio antropologico: allo stereotipo dell’innata infermità mentale della donna (infirmitas sexus) si accompagna una serie di qualità negative a lei attribuite come la naturale ignorantia iuris e una non meglio definita levitas animi, inaugurando quel mito dell’incostanza femminile che tanto rilievo, giuridico e letterario, assumerà nel corso della storia successiva.
La carenza di autonomia familiare in capo alla donna ne è l’effetto giuridico preponderante.
Il requisito dell’autonomia familiare, base per la capacità giuridica, è nell’esenzione dalla subordinazione alla patria potestas, alla manus maritalis, al manciupium altrui, ossia nel non trovarsi nello status di filius familias, di mulier in manu o di liber in mancipio. La persona che gode di autonomia familiare è definita sui iuris, rispetto alla persona alieni iuris che è invece subordinata ad una potestà altrui. La donna, per l’intero arco della vita, è sottoposta alla potestà (pater, maritus) o, in via residuale, quand’anche sia sui iuris, al controllo di un uomo (tutor) .
Anche l’onomastica riflette tale condizione. Alla nascita, vengono assegnati tre nomi al maschio (praenomen, nomen e cognomen) e soltanto uno alla femmina, quello della gens a cui appartiene, declinato al femminile (Giulia, Valeria, Claudia, Flaminia, etc.). Ciò costituisce ulteriore indice di come la donna non sia considerata individuo, ma parte di un nucleo familiare. Se le figlie sono più di una, accanto al nome della gens, si appone il nome generico di Prima, Secunda, e così via.
Col tempo, sopratutto in ambito patrizio, si attinge ai nomi di illustri antenate. Per distinguere due sorelle oppure madre e figlia si utilizzano gli attributi senior e junior.
Dal punto di vista giuridico, pertanto, la condizione della donna nel mondo romano risulta connotata per secoli dall’assoluta incapacità giuridica, nel diritto pubblico come in quello privato. A fronte della piena e totale incapacità iure publico (la donna è fermamente eslcusa dalla vita politica, dall’esercizio del voto e dall’elettorato passivo), per quanto concerne il ius privatum, l’incapacità femminile si traduce nell’impossibilità ad avere potestà sui discendenti o altri soggetti, a contrarre obbligazioni in favore di terzi (intercedere pro aliis), riconoscendosi unicamente una limitata capacità a succedere ab intestato e in quella per testamento. Aulo Gellio ci narra del ius testamenti faciundi (Gell 1.12.9) in capo alla vestale: tale precisazione fa propendere per la circostanza che la donna, di regola, ne fosse in realtà sprovvista.
La donna è tuttavia ritenuta pienamente capace di atti illeciti e quindi dell’obbligo di risponderne personalmente.
L’esistenza dell’istituto della tutela mulierum, citata da Gaio (Gai.1.192), funzionale in età avanzata a controllare gli atti di disposizione matrimoniale più importanti, compiuti dalla donna, in epoca arcaica deve essere stata assorbita dalla patria potestas. La durata è perenne, a differenza della tutela impuberum che invece è transitoria, venendo meno con l’avvento della pubertà, fissata per le ragazze a dodici anni di età (per i maschi, a quattordici). In tal senso, è evidente la permanenza di una perpetua incapacità giuridica femminile.
Non può indurre a far ritenere il contrario la previsione giuridica del termine di un anno per l’acquisto della manus, mediante l’usus (coabitazione more uxorio) da parte del marito, atteso che, durante il decorso dell’anno, permane pur sempre la potestà del pater familias o del tutore, non costituendo il detto anno una finestra temporale di capacità giuridica della donna. Lo stesso diritto al trinoctium, ossia alla facoltà per la donna di allontanarsi ogni anno per tre notti dalla casa coniugale, sì da impedire l’acquisizione su di lei dalla manus, non costituisce certo una modalità per ottenere la capacità giuridica. Anche in tale caso permane sulla donna la potestà del pater familias originario (o del tutor).
D’altro canto, l’esistenza dell’istituto della coëmptio (da cum-emptio, con compera) – una sorta di mancipatio – testimonia che la donna viene venduta dal pater familias al futuro marito: “coëmptione vero in manum conveniunt per mancipationem, id est per quandam imaginariam venditionem” (Gai.1.113).
L’arcaica mancipatio è un atto di trasferimento della res, usato anche per la vendita dei figli maschi nell’esercizio del ius vendendi del pater familias. Nel rito, è mancipio dans (chi dà) il padre della donna e mancipio accipiens (chi riceve) il marito o, se era alieni iuris, il suo pater familias.
La coëmptio diviene col tempo il rito nuziale più diffuso tra quelli che permettono di acquisire la manus. Ad esso ricorrono soprattutto i plebei, poiché la rituale confarreatio è loro preclusa, ma col tempo anche i patrizi abbandonano la confarreatio, eccessivamente formale, per adottare la coëmptio.
Nel noto episodio del ratto delle Sabine, la controversia tra Romani e Sabini viene composta, a dire di Tito Livio (1.9.8-9 e 1.10.2), offrendo fondi di terreno in cambio delle donne rapite: una vera e propria compravendita. Nel rituale del matrimonio romano coesistono i due momenti del ratto e dello scambio. La donna viene sottratta al proprio gruppo familiare e entra a far parte della famiglia del marito, filiae loco. Il carattere patrilocale della famiglia romana si estrinseca anche nella circostanza che la sposa viene a risiedere presso la famiglia del marito o del pater del marito. La traslazione della mulier sotto la manus del marito o del di lui padre comporta la perdita di ogni vincolo giuridico con la famiglia di origine.
Breviter, la condizione giuridica della donna romana in età arcaica, priva di capacità giuridica e oggetto di scambio mediante la coëmptio o di acquisizione mediante usus, è tale che la ella è sottoposta, sempre e comunque, a una potestà: quella del pater, quella del tutor (nella tutela mulierum), del maritus (o padre di lui) che l’abbia in manu.
Bonfante ci ricorda che “la storia della tutela muliebre è la storia della sua dissoluzione”. Nel momento del definitivo declino, quando le donne, dell’alta società romana, trattano direttamente e personalmente i loro affari, l’intervento tutorio ha ormai acquisito una funzione meramente formale (Gai.1.190): difatti, a fronte del diniego di prestare l’auctoritas, la mulier ha facoltà di postulare l’intervento del praetor per costringere il tutore recalcitrante a prestare il suo consenso (saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur), fatte salve alcune situazioni.
I tutori legittimi (adgnati), salvo nel caso di giusta causa (particolare gravità), non possono essere costretti dal magistrato adito a prestare l’auctoritas per la confezione del testamento, per l’alienazione delle res mancipi (res pretiores, come definite da Gaio) e per assunzione di obligationes, atteso che essi sono eredi legittimi e il testamento della donna potrebbe in teoria escluderli dalla successione; mentre alienando le res pretiores o contraendo debiti l’eredità intestata potrebbe depauperarsi (minus locuples) (Gai.1.192). Tutori legittimi della mulier sono, come per gli impuberes, gli adgnati proximi e in via del tutto gradata i gentiles. La funzione del tutor mulieris, che non ha la negotiorum gestio, si riduce all’auctoritatis interpositio per una serie di affari.
La subordinazione della donna non impedisce alla medesima di aver un ruolo importante nell’ambiente domestico. La famiglia è il fulcro della società romana. Nella famiglia si cura l’istruzione e la formazione morale del futuro civis, in un contesto che ancora non conosce le istituzioni scolastiche e quelle religiose, intese in senso moderno. Sebbene la religione sia separata dalla morale, i semplici riti religiosi che quotidianamente si celebrano in seno alla famiglia, generano nei fanciulli un profondo senso di responsabilità e di timore reverenziale per il sacro e l’invisibile.
In pratica, il pater familias ha sotto la sua potestà l’intera famiglia composta da moglie, figli, nipoti, nuore, dipendenti e patrimonium. Esercita su di essi il ius vitae ac necis e ogni potere di disposizione (ius vendendi). Tale potestà è ovviamente limitata alla sfera del diritto privato, tanto che il pater non può esercitarla verso un figlio che ricopra l’ufficio di magistrato.
La mater, nel gruppo familiare, svolge invece un ruolo importante nel governo della casa. “A differenza della donna greca, la matrona romana svolgeva le sue attività quotidiane nell’atrium (la sala principale), non isolata come in Oriente” (Scullard).
In età arcaica e repubblicana, è proprio la domus il luogo prevalentemente riservato alla donna. Ella deve coordinare e gestire il lavoro domestico, dalla preparazione delle pietanze al tessere la lana per gli indumenti della famiglia. Ella deve occuparsi della cura, dell’allevamento e della formazione dei figli, in particolare educandoli ai mores maiorum, le costumanze degli antichi che costituiscono il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana.
Anche sotto il profilo lessicale, l’espressione mater familias è raramente usata, nel senso di indicare la mulier sui iuris, in contrapposizione alla mulier alieno iuri subiecta. Il termine più che altro designa la uxor del pater familias, colei che è incaricata da costui a coordinare l’amministrazione domestica.
Nonostante la sua vita si svolga soprattutto tra le mura domestiche, la donna romana può tuttavia uscire per fare compere e partecipare ai banchetti, purché non si ponga sdraiata, come gli uomini, o beva vino: ella può sorbire unicamente mulsum, una bevanda ottenuta miscelando poco vino e miele, solitamente offerta all’inizio della cena in concomitanza con la gustatio.
In età classica, Ulpiano ci precisa che, per mater familias, si intende la matrona, ossia la donna di specchiati costumi sociali (D.50.16.46.1).
Di fatti, è nell’età imperiale che la presenza femminile in politica inizia a essere ben visibile. La crisi del tradizionale modello di familia romana, basato sulla potestà del pater familias, e della correlativa struttura sociale e morale, conduce sempre più la donna al di fuori delle mura domestiche. Inizia l’emersione di famiglie composte da un solo genitore divorziato o vedovo, o senza prole, oppure allargate e plurigenitoriali che raggruppano i figli nati da differenti matrimoni e di età differenti, o ancora le famiglie di fatto fondate su rapporti di concubinato o su legami omosessuali.
Le donne cominciano ad acquisire ricchezze e potenza, divenendo sempre più indipendenti dall’uomo. Lo stesso istituto della tutela mulierum, come detto, viene svuotato di un sostanziale contenuto giuridico, residuando in capo al tutor una funzione ormai meramente formale che, in concrerto, mai si traduce in un effettivo veto alle decisioni assunte dalla nuova mulier.
Bibliografia essenziale
FRANCIOSI Gennaro, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, Jovene, Napoli, 1989.
FRANCIOSI Gennaro, Famiglia e persona in Roma antica. Dall’età arcaica al principato, Giappichelli, Torino, 1992.
GUARINO Antonio, Diritto privato romano, Jovene, Napoli, 1992.
SCULLARD Howard H., Storia del mondo romano, Rizzoli, Milano, 1992.
ZANNINI Pierluigi, Studi sulla tutela mulierum, Giappichelli, Torino, 1976.
Avv. Luigi Zito