La testimonianza della vittima vulnerabile nel processo penale

ABSTRACT: Il presente lavoro si pone come obiettivo quello di delineare il ruolo e i diritti che il Legislatore ha riconosciuto alla “persona offesa dal reato” ed in particolare alla vittima vulnerabile nell’ambito del procedimento penale.

L’interrogativo al quale si intende rispondere è: persona offesa/vittima del reato: semplice spettatore o parte attiva del processo penale? Quale tutela?

Ciò ripercorrendo la fase delle indagini preliminari, focalizzando l’attenzione sulle indagini difensive, per poi puntare la luce del faro sui soggetti bisognosi di una particolare tutela: le cosiddette vittime vulnerabili.

Oggi il difensore dispone di una disciplina ad hoc delle indagini difensive, emanata in seguito all’abrogazione dell’art. 38 disp. att. c.p.p., che ha cercato di mettere ordine nella materia.

Con la Legge, 7 dicembre 2000, n. 397 è stato introdotto il titolo VI-bis del Codice di Procedura Penale intitolato “Investigazioni difensive” con la finalità di attuare la parità investigativa tra il dominus delle indagini preliminari – pubblico ministero e il difensore.

Su tale parità, tanto auspicata, permangono delle lacune soprattutto sotto il profilo economico-organizzativo. Difatti, il pubblico ministero può imputare la spesa all’Erario, mentre il difensore deve fare i conti con il portafoglio del cliente. Sotto il profilo organizzativo – il pubblico ministero può ricorrere a nuclei investigativi specializzati, il difensore, invece, deve rivolgersi ad investigatori privati.

Ad ogni modo, il Legislatore ha inteso attuare i principi della parità e del contraddittorio tra le parti, secondo il brocardo “Audiatur et altera pars” (sia ascoltata anche la controparte), contenuti nell’art. 111 Cost. che sancisce il principio del “Giusto Processo”.

Il lavoro, nel volgere l’attenzione sulla figura della persona offesa dal reato ed, in particolare, sulla vittima vulnerabile, sugli strumenti internazionali a tutela della stessa – strumenti che hanno consentito alla vittima del reato di prendere parte al gioco sul palcoscenico del processo, abbandonando la posizione di mero spettatore ed acquisendo quella di parte attiva.

L’indagine prosegue, poi, sul testimone vulnerabile, ovvero su quella tipologia di testimone non comune che, per ragioni status, necessita di peculiari esigenze di tutela.

Per tali soggetti vulnerabili (minori, infermi di mente, etc.), nel caso in cui siano chiamati a partecipare al procedimento penale in veste di persona informata sui fatti o di testimone, è previsto uno speciale sottoinsieme di regole processuali la cui ratio è quella di garantire la dignità e la personalità del dichiarante, ovvero evitare la cosiddetta vittimizzazione secondaria o ri-vittimizzazione della persona offesa dal reato.

Tale fenomeno, infatti, si concreta in conseguenze sfavorevoli per la persona offesa dal reato consistenti in un pathos di tipo psicologico e sociale non causato direttamente dal reato, ma dal contatto/ingresso della vittima con la macchina giudiziaria.

A conclusione, un cenno sul ruolo dell’Avvocato nella difesa delle vittime vulnerabili.


Sommario: 1. Il concetto di persona offesa – 2. La vittima e la vittima vulnerabile – 3. Strumenti giuridici internazionali di tutela: la Convenzione di Lanzarote e la Convenzione di Instabul – 4. Le indagini preliminari e le indagini difensive – 5. La testimonianza della “vittima vulnerabile” nella fase delle indagini preliminari e nell’incidente probatorio – 6. La vittimologia e la vittimizzazione secondaria – 7. Il ruolo dell’Avvocato nella difesa delle vittime vulnerabili – 8. Conclusioni.

1. Il concetto di persona offesa

Il Legislatore italiano non utilizza mai il termine di vittima, prediligendo l’uso di espressioni quali persona offesa, soggetto passivo, offeso dal reato.

Né il codice penale, né il codice di procedura penale offrono una definizione di persona offesa. Gran parte della dottrina, infatti, ritiene che, per dare una definizione di persona offesa, è necessario fare riferimento all’oggetto giuridico del reato, ossia a quel bene tutelato giuspenalmente.1

Secondo una definizione invalsa2, è persona offesa dal reato il titolare del bene giuridico protetto dalla disposizione incriminatrice che si assume violata.

Alla titolarità dell’interesse leso o messo in pericolo dal reato si ricollega, poi, il tessuto normativo partecipativo, informativo e protettivo predisposto dal codice di rito in favore della persona offesa dal reato.

Ne consegue che persona offesa dal reato è, dunque, colui che è titolare del bene giuridico leso dal reato, che nell’ambito del procedimento penale non è una parte, neanche eventuale, ma che lo diventa con la costituzione di parte civile ex art. 76 c.p.p..

È bene precisare che la persona fisica titolare del bene giuridico offeso dal reato può coincidere con chi da quel reato ha subito un danno sia esso patrimoniale o non patrimoniale, comunque risarcibile, ma può anche non coincidere.

Da qui la distinzione tra persona offesa dal reato e danneggiato, intendendo per danneggiato colui che vanta un danno dalla commissione del reato.

Si tratta di due soggetti che svolgono un ruolo differente nell’ambito del procedimento penale: nella fase delle indagini è presente la persona offesa dal reato alla quale sono riconosciuti una serie di poteri di controllo nei confronti dell’autorità giudiziaria, nella fase processuale vera e propria il Legislatore ha riconosciuto diritti e facoltà a chi – persona offesa dal reato – diventa parte con la costituzione di parte civile.

Il codice di procedura penale dedica alla persona offesa un intero titolo, nell’alveo della disciplina dei soggetti del procedimento (titolo VI del libro I).

In tal sede, si è dato luogo anzitutto ad un’estensione soggettiva del ruolo dell’offeso, mediante l’individuazione di due nuove figure cui sono attribuiti i medesimi poteri.3 (3) Questi ultimi – in caso di decesso della persona offesa in conseguenza del reato – sono anzitutto attribuiti ai “prossimi congiunti” ex art. 90 c. 3 c.p.p., compreso, oggi, anche il partner dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

Il Legislatore italiano riconosce alla persona offesa dal reato una serie di diritti e facoltà. Sul punto l’art. 90 c.p.p. rubricato “Diritti e facoltà della persona offesa dal reato” stabilisce che:

1. La persona offesa dal reato, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge, in ogni stato e grado del procedimento può presentare memoriee, conesclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova.

1-bis. La persona offesa ha facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. Ai fini della dichiarazione di domicilio la persona offesa può indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

2. La persona offesa minore, interdetta per infermità di mente o inabilitata esercita le facoltà e i diritti a essa attribuiti a mezzo dei soggetti indicati negli articoli 120 e 121 del codice penale.

2-bis. Quando vi è incertezza sulla minore età della persona offesa dal reato, il giudice dispone, anche di ufficio, perizia. Se, anche dopo la perizia, permangono dubbi, la minore età è presunta ma soltanto ai fini dell’applicazione delle disposizioni processuali.

3. Qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge sono esercitati dai prossimi congiunti di essa o da persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente”.

La norma de qua, nell’individuare diritti e facoltà della persona offesa, stabilisce che la stessa può presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento ed indicare elementi di prova (tranne ovviamente in Cassazione, in cui non vi è più alcuna istruzione probatoria).

Memorie difensive che consistono in scritti provenienti dall’offeso o dal suo difensore, possono essere presentate durante le indagini preliminari, saranno rivolte al pubblico ministero o al Giudice per le Indagini Preliminari, nelle successive fasi al Giudice che procede. Il comma 1 bis, introdotto dal d.lgs. n. 150/2022 (Riforma Cartabia) riconosce alla persona offesa la facoltà di dichiarare o eleggere domicilio. Per la dichiarazione di domicilio, la persona offesa può indicare un indirizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Questa nuova previsione deve essere legge anche alla luce della riforma della giustizia riparativa (art. 129 bis c.p.p.), nella quale la persona offesa ha una posizione attiva all’interno del processo; essa, difatti, ha acquisito la qualifica di “soggetto processuale”.

Nonostante i numerosi diritti e facoltà riconosciuti alla persona offesa, questa non agisce, non formula petita sul merito: perché divenga parte attiva del processo penale deve costituirsi parte civile4 (4) e solo da questo momento che può muoversi attivamente nella scena processuale.

In presenza dei requisiti richiesti dalla Legge, la persona offesa ha, inoltre, diritto di essere ammessa al Patrocinio a Spese dello Stato (art.74 d.P.R 30 maggio 2002, n. 115); in particolare, la persona offesa dai reati di cui agli artt. 572, 583-bis,609-bis, 609-quater, 609-octies e 612 – bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies c.p., può essere ammessa al patrocinio suddetto anche in deroga ai limiti di reddito (art. 76 co. 4 – ter, d.P.R 30 maggio 2002, n. 115).

Durante la fase delle indagini preliminari, la persona offesa può conferire ad un difensore mandato per lo svolgimento di investigazioni difensive che potranno essere affidate dal legale ad investigatori privati autorizzati o a consulenti tecnici.

Tali atti inquisitivi possono essere compiuti anche dalla difesa dell’indagato e consistere: nell’assunzione di dichiarazioni da persone informate sui fatti; nella richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione; nell’accesso ai luoghi di commissione del fatto al fine di documentarne lo stato o effettuare rilievi – previo consenso del titolare, ovvero autorizzazione del Giudice nel caso di luoghi non aperti al pubblico; nel compimento di atti/accertamenti tecnici non ripetibili (art. 391-decies commi 2 e 3. c.p.p.).

Nella fase delle indagini preliminari, è riconosciuto alla persona offesa il diritto di richiedere l’esistenza di iscrizioni nel registro delle notizie di reato (art. 335 comma 2 c.p.p.). Decorsi sei mesi dalla data di presentazione della denuncia o querela è, altresì, riconosciuto il diritto di chiedere informazioni all’autorità procedente circa lo stato del procedimento, “senza pregiudizio del segreto investigativo” (art. 335 comma 3 ter c.p.p., introdotto dall’art. 1, comma 26, Legge. n. 103/2017).

Nel caso in cui la persona offesa abbia avuto conoscenza del procedimento, l’ordinamento gli accorda l’interesse a sottoporre a verifica la legittimazione territoriale del pubblico ministero procedente e, indirettamente, anche la competenza del Giudice (art. 54 quater c.p.p.)

Nel caso si debba procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili disposti dal pubblico ministero devono essere avvisate, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici (art. 360 comma 1 c.p.p.).

Inoltre, i difensori, nonché i consulenti tecnici – eventualmente nominati – hanno diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve (art. 360 comma 3 c.p.p.); i difensori hanno, altresì, la facoltà di visionare i relativi verbali ed estrarne copia (art. 366 c.p.p.).

Ai sensi dell’art. 367 c.p.p. anche il difensore della persona offesa ha la facoltà di presentare memorie e richieste scritte al pubblico ministero. Gli elementi di prova raccolti saranno, poi, inseriti nel fascicolo del difensore, di cui all’art. 391-octies c.p.p., ed eventualmente presentati direttamente al pubblico ministero o al Giudice. La documentazione di atti e accertamenti non ripetibili è inserita nel fascicolo per il dibattimento (art. 431 comma 1 lett. c, c.p.p.).

La persona offesa può richiedere al pubblico ministero di promuovere l’incidente probatorio; il magistrato, se non accoglie la richiesta, pronuncia decreto motivato e ne dispone la notifica all’offeso (art. 394 c.p.p.). Ove esso sia disposto, il difensore della persona offesa ha diritto di parteciparvi e di chiedere al Giudice di rivolgere domande alle persone sottoposte ad esame (art. 401 comma 5 c.p.p.). Alla persona offesa è riconosciuto il diritto di assistere ove si debba esaminare un testimone o altra persona: negli altri casi è richiesta l’autorizzazione del Giudice (art. 401 comma 3 c.p.p.). L’ordinamento processuale riconosce ancora all’offeso, a tutela del suo interesse all’esercizio dell’azione penale, poteri di impulso e di controllo su eventuali inerzie del pubblico ministero.

Il riferimento è al potere di intervento in caso di richiesta di proroga delle indagini (art. 406 c.p.p.), e nella procedura di archiviazione (artt. 408 ss. c.p.p.); nonché alla facoltà di sollecitare al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello l’avocazione, allorché il pubblico ministero non abbia assunto alcuna determinazione sull’esercizio dell’azione nel termine di durata delle indagini preliminari (art. 413 c.p.).

Concluse le indagini preliminari, il ruolo della persona offesa si indebolisce, si affievolisce salvo che, assumendo la veste di danneggiato, non opti per la costituzione di parte civile.

2. La vittima e la vittima vulnerabile

Per capire il concetto di vittima è bene fare un breve excursus partendo dal suo significato e volgendo, poi, l’attenzione alle fonti sovranazionali.

L’etimologia della parola “vittima” si collega ai verbi latini “vincire” (legare, avvincere) o “vincere” (sconfiggere, disarmare). Vittima è, quindi, colui che soffre, colui che soccombe.

Il concetto di “vittima del reato” è di origine criminologica e indica qualsiasi persona che subisce le conseguenze di un fatto-reato.

Per molti anni gli studiosi hanno volto la loro attenzione sull’autore di reato, mettendo, così, in secondo piano la vittima che subisce tale violenza.

La criminologia, la psicologia e la sociologia hanno tentato di capire il perché si delinque, ma mai il perché si è vittima. Da qualche tempo, però, il Legislatore ha volto l’attenzione alla vittima ponendo in atto una serie di strumenti a tutela della stessa, non solo dal lato economico inteso come risarcimento del danno conseguente al reato, ma anche dal lato psicologico.

La vittimologia studia non solo la sfera bio-psico-sociale della vittima, ma anche il rapporto della vittima con l’autore del reato, il contesto ambientale, fisico e psicologico, entro il quale è stata compiuta un’azione criminale e, nel caso di vittima sopravvissuta, le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali.

Una definizione più articolata viene fornita dall’Avvocato e Psicologo G. Gulotta, che la considera “una disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima di un crimine, delle sue caratteristichebiologiche,psicologiche, morali,socialieculturali,dellesuerelazioniconil criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine.”

Gulotta ritiene che le possibilità di diventare vittima di un crimine “non sono distribuite in modo casuale e nemmeno equivalente, ma certe caratteristiche bio-fisiologiche, psicologiche o sociali possono predisporre i soggetti a divenire vittime di determinati reati”.

Secondo alcuni orientamenti, però, la vittimologia non si occupa unicamente delle vittime di reato, ma interessa tutte le vittime, intendendo cioè quei soggetti che versano in uno stato di sofferenza, riconducendo in tale categoria anche le vittime di calamità naturali.

Il concetto di vittima è entrato a far parte ultimamente anche nelle fonti della cornice internazionale.

La Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia relativi alle vittime della criminalità e alle vittime di abuso di potere del 29 novembre 1985, all’art. 1 definisce vittime le persone che, individualmente o collettivamente, abbiano subito un pregiudizio, in particolare un’offesa alla propria integrità fisica o mentale, una sofferenza morale, una perdita materiale, un attentato grave ai propri diritti fondamentali, in ragione di atti o di omissioni che abbiano infranto la legge penale. L’art. 2, poi, individua come vittime anche i familiari della vittima diretta o le persone che hanno subito un pregiudizio intervenendo in soccorso delle vittime.

E, ancora, la Convenzione sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, del 25 ottobre 2007, nota come Convenzione di Lanzarote dove “vittima designa ogni minore oggetto di sfruttamento o abuso sessuale” (art. 3 lett. c).

Poi, la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, identifica quale vittima qualsiasi persona fisica che subisca “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere” che causino o possano causare “danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica”, oppure venga offesa da atti di “violenza domestica”, ossia “atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica” originati “all’interno della famiglia o del nucleo familiare” (art. 3).5

Convenzioni queste recepite dall’Unione Europea con diverse direttive: la Direttiva 2011/93/UE, del 13 dicembre 2011, sulla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile; la Direttiva 2011/36/UE, del 5 aprile 2011, in materia di tratta di esseri umani e di protezione delle vittime di tale reato.6

Ancora, la Direttiva 2011/99/UE, del 13 dicembre 2011, sull’ordine di protezione europeo, individua la vittima in chi necessiti di misure di protezione rivolte specificamente a proteggerlo “da atti di rilevanza penale di un’altra persona tali da mettere in pericolo, in qualsiasi modo, la vita o l’integrità fisica, psichica e sessuale”.

Notevole importanza riveste la Decisione quadro 2001/220/GAI, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione che la vittima occupa nel procedimento penale: l’art. 1 della decisione identifica come vittima “la persona fisica che abbia subito un pregiudizio, anche fisico o mentale, sofferenze psichiche, danni materiali causati direttamente da atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro”.

La Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, rappresenta, a tutt’oggi, il principale strumento normativo in materia adottato dall’Unione Europea. All’art. 2, difatti, qualifica come vittima sia la “persona fisica che abbia subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato”, sia il “familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”.

Il termine “vittima” ha iniziato ad essere utilizzato in senso morale e giuridico e cioè quale “vittima di qualcosa o di qualcuno” a partire dal XVII secolo per, poi, acquisire nel corso del XVIII secolo un significato più vicino a quello attuale.

Si tratta di un concetto multidisciplinare in quanto può essere utilizzato sotto diversi profili: antropologico, sociologico, psicologico, criminologico, giuridico penale, ecc.

Come già precisato nel paragrafo precedente, il termine vittima non è presente né nel codice penale, né nel codice di procedura penale, dove il Legislatore preferisce utilizzare espressioni quale “l’offeso” ( art. 70 n.2 c.p.), “la persona offesa” (artt. 92 e 122 comma 3 c.p.p.) oppure “la persona offesa dal reato” (artt. 120 c.p. e 90 c.p.p.).

Il concetto di vittima solo di recente ha assunto all’interno del nostro processo penale un ruolo centralizzato e non più marginale, diventando, così, punto di riferimento dei meccanismi e delle dinamiche criminali. È difficile dare una definizione unitaria di vittima, poiché è diffusa la tendenza ad individuare diverse categorie di vittime.

Si conoscono e si considerano almeno tre tipi di “supervittima”:

  1. i bambini oggetto di reati sessuali; le donne colpite da crimini sessualmente orientati e
  2. le cosiddette vittime collettive, ossia coloro che fanno parte, ad esempio, di un gruppo etnico o religioso, oppure che hanno subito pressioni mafiose o terroristiche.

Tali tipi di supervittima vengono considerati soggetti portatori di un particolare vulnus, si parla a tal proposito di vittima vulnerabile.

Perché, dunque, vittima vulnerabile? Non si tratta di una vittima comune, bensì di una vittima che richiede per lo status che presenta una particolare esigenza di tutela, volta a garantire la dignità e la personalità della stessa, in ottemperanza a quanto stabilito dall’art. 3 della nostra Carta Costituzionale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla Legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche di condizioni personali e sociali”.

Nella nozione di vittima vulnerabile vi rientra non solo il minore, il soggetto affetto da infermità mentale, ma anche le vittime di reati sessuali, di maltrattamenti, di violenza domestica, di mutilazioni genitali, di tratta e riduzione in schiavitù, di mafia e di terrorismo e di crimini efferati proprio sulla scia dell’ultimo intervento del Legislatore con il cosiddetto Decreto femminicidio (D. Lgs. n. 4/2014) con la finalità di rendere più taglienti gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking).

La nozione di vulnerabilità oscilla, quindi, tra la valorizzazione della tipologia del reato subito dal soggetto (vulnerabilità oggettiva) e l’attenzione per le caratteristiche personali dell’individuo che ha patito il pregiudizio del reato (vulnerabilità soggettiva).

Come valutare la vulnerabilità di un soggetto?

Al fine di garantire maggiore tutela alla “vittima vulnerabile”, la Direttiva 2012/29/UE ha previsto un nuovo modus operandi circa la valutazione della vulnerabilità; valutazione fondata su un’analisi individuale, personalizzata.7

Tale modus operandi è contenuto nel D. Lgs. n. 24/2014, attuativo della Direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la Decisione quadro 2002/629/GAI che ha riconosciuto la necessità di valutare la vulnerabilità sulla base di un esame individuale.

L’articolo 1 del Decreto, infatti, rubricato “Principi generali”, stabilisce che “nell’attuazione delle disposizioni del presente decreto legislativo si tiene conto, sulla base di una valutazione ‘individuale’ della vittima, della specifica situazione delle persone vulnerabili quali i minori, i minori non accompagnati, gli anziani, i disabili, le donne, in particolare in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le persone con disturbi psichici, le persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica, sessuale o di genere”.

Lo status vulnerabile di un soggetto, ovvero la sua condizione di soggetto debole deve essere, dunque, valutata non tenendo conto del fatto che l’offeso sia vittima di particolari reati, ma attraverso un esame individuale, facendo riferimento:

  1. alle caratteristiche personali della vittima;
  2. al tipo o alla natura del reato;
  3. alle circostanze del reato,
  4. al danno patito in conseguenza del reato,
  5. alla relazione che intercorre tra la vittima e l’autore del reato.

Così operando si esclude una valutazione presuntiva della vulnerabilità che, ai sensi dell’articolo 22 della direttiva, rimane presunta solo per i minori “Oltre alle misure a disposizione di tutte le vittime della tratta di esseri umani, è opportuno che gli Stati membri garantiscano specifiche misure di assistenza, sostegno e protezione per i minori. Talimisure dovrebbero essere applicate tenendo conto dell’interesse superiore del minore conformemente alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sui diritti del fanciullo. Quando l’età di una persona oggetto della tratta di esseri umani è incerta e sussistono motivi per ritenere che sia inferiore ai diciotto anni, si dovrebbe presumere che la persona in questione sia un minore e la stessa dovrebbe ricevere assistenza, sostegno e protezione immediati. Le misure di assistenza e sostegno per i minori dovrebbero essere intese al recupero fisico e psico-sociale e ad una soluzione duratura per il minore in questione. L’accesso all’istruzione aiuterebbe il minore a reintegrarsi nella società. Tenuto contodella particolare vulnerabilità dei minori vittime della tratta, si dovrebbero prevedere ulteriori misure di protezione per tutelarli in occasione delle audizioni rese durante le indagini e i procedimenti penali”.

Nonostante il minore sia valutato come soggetto intrinsecamente vulnerabile, deve in ogni caso essere sottoposto ad una valutazione individuale che metta in evidenza le caratteristiche specifiche e ne valuti in concreto la “debolezza”, anche tenendo conto dell’iter processuale che dovrà affrontare.

L’interesse superiore del minore deve essere, sempre, una considerazione preminente in ragione della sua condizione di maggiore vulnerabilità. Nel diritto di famiglia, infatti, l’interesse superiore del minore è quella clausola generale che il Legislatore offre al Giudice affinchè, nella decisione del caso concreto temperi, modelli, adatti le esigenze presenti al superiore interesse del minore.

3. Strumenti giuridici internazionali di tutela: la Convenzione di Lanzarote e la Convenzione di Istanbul

Si tratta di due Convenzioni che hanno acceso i riflettori sulla problematica dei soggetti deboli – “vittime vulnerabili” – con l’obiettivo di prevedere una normativa ad hoc che predisponga strumenti efficaci di tutela.

La Convenzione di Lanzarote “per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali”, firmata il 25 ottobre 2007, ha come fine precipuo sia quello di proteggere il minore come soggetto debole, sia quello di assistere e proteggere la vittima di reati a sfondo sessuale.

Sul versante sostanziale, la Convenzione definisce le condotte di abuso sessuale, di prostituzione minorile, di pedopornografia, di corruzione di minori, di adescamento dei medesimi e detta le regole in materia di giurisdizione dei singoli Stati, occupandosi, altresì, di sanzioni, circostanze aggravanti e valutazione di precedenti condanne.

Sul versante processuale, occorre focalizzare l’attenzione sull’ art. 30 il quale stabilisce che gli Stati adottino misure legislative o di altro genere per assicurare la migliore tutela del minore nel processo e dal processo, nel rispetto dei suoi diritti. Tutela che deve essere assicurata con l’utilizzo di un metodo di protezione volto ad evitare che le indagini e il procedimento giudiziario aggravino maggiormente il trauma del minore e che ci sia una forma di assistenza anche dopo la risposta penale.

Nel corso della fase delle indagini è prevista la possibilità di utilizzare agenti sotto copertura e servizi investigativi per meglio identificare le vittime di pedopornografia.

Il Legislatore italiano ha recepito l’acquis di Lanzarote con la Legge n. 172/2012 che ha introdotto nel sistema processuale penale una tutela specifica nell’assunzione di informazioni testimoniali di minori vittime o testimoni di reati di carattere sessuale consistente nell’ “ausilio di un esperto in psicologia o psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero”.

La partecipazione dell’esperto è prevista per tutte le forme di sommarie informazioni (SIT) raccolte dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, ovvero dal difensore – artt. 351, 362 e 391 bis c.p.p.), dando così al sistema penale un carattere di sensibilità per le tematiche psicologiche dell’età dello sviluppo. Ecco che accanto ai tradizionali protagonisti del processo penale fa ingresso un nuovo protagonista: l’esperto (esperto in psicologia o

psichiatria infantile). Il minore durante l’assunzione delle dichiarazioni può essere assistito dai genitori o da altra persona idonea indicata dallo stesso e autorizzata dal giudice, nonché da gruppi, fondazioni, …di comprovata esperienza nel settore dell’assistenza e del supporto alle vittime dei reati a sfondo sessuale.

Inoltre, nel rispetto del principio costituzionale del “Giusto Processo” ex art. 111 Cost. è previsto che sia le indagini, sia i procedimenti penali siano effettuati con priorità e siano portati avanti senza ritardo, in modo che non venga pregiudicato il diritto alla difesa.

La stessa legge ha anche riscritto l’incidente probatorio atipico, di cui all’art. 392 comma 1-bis c.p.p., che, sino ad allora, era strumento accessibile solo per l’esame del minore di anni sedici, relativo a reati di carattere sessuale: la modifica ha esteso l’istituto a tutti i minorenni, nonché ai maggiorenni vittime di delitti di carattere sessuale.

La Convenzione di Istanbul – firmata nel 2011 in Turchia – è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza. La Convenzione interviene – specificamente – nell’ambito della violenza domestica che non colpisce solo le donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.

La Convenzione si pone come obiettivi principali: la promozione della parità tra i sessi, la rimozione delle discriminazioni nei confronti delle donne attraverso la prevenzione, persecuzione ed eliminazione di ogni forma di violenza contro di esse, la lotta alla violenza domestica e l’introduzione di misure di assistenza a favore delle vittime di tali violenze.

Inoltre, al fine di garantire un’effettiva assistenza alle vittime di violenza, prevede una serie di strumenti perché le vittime stesse possano avere tutte le informazioni per sporgere denuncia: si pensi ad esempio, ai centri antiviolenza denominati anche “case rifugio”, nelle quali le donne possono trarre sostegno e protezione da parte di persone qualificate e di linee telefoniche per il sostegno alla persona.

È previsto, inoltre, un risarcimento nel caso in cui le autorità statali non abbiano adempiuto al dovere di adottare tutte le misure di prevenzione e protezione in base alle loro competenze.

La Convenzione contempla l’invalidazione o l’annullamento dei matrimoni contratti con la forza; prevede che vengano incriminati tutti gli atti persecutori; introduce l’obbligo di

valutare non solo qualsiasi tipo di violenza sessuale, ma di provare anche che il consenso all’atto sessuale sia effettivamente dato volontariamente.

E, ancora, inserisce l’obbligo di perseguire penalmente il matrimonio contratto con la forza e che vengano vietate le mutilazioni genitali femminili e le molestie sessuali; prevede l’obbligo di escludere la possibilità di addurre, quali giustificazioni per gli atti di violenza, la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto “onore”. Sul versante giudiziario prevede una serie di azioni preventive come la concessione tempestiva delle misure di allontanamento, ingiunzione o protezione volte a tutelare la persona offesa.

I principi di detta Convenzione sono stati recepiti nell’ordinamento italiano con la Legge n. 119/2013 che ha introdotto profonde modifiche processuali a tutela della vittima, riconducibili essenzialmente a tre filoni:

  1. quello informativo;
  2. quello delle misure cautelari personali
  3. quello riferibile alle modalità di assunzione delle dichiarazioni della persona offesa.

Le informazioni sul diritto di difesa vengono comunicate alla persona offesa dall’Autorità al momento dell’acquisizione della notitia criminis unitamente alla possibilità di accedere al Patrocinio a Spese dello Stato.

È prevista la notifica d’ufficio alla vittima di reati commessi con violenza alle persone, dell’avviso dell’avvenuta richiesta di archiviazione, con contestuale aumento del termine per presentare l’opposizione da dieci a venti giorni. E, ancora, è stato, infine, ampliato l’obbligo di comunicazione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. – Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari – alle vittime dei soli delitti di maltrattamenti e di atti persecutori.

Al fine di prevenire la cosiddetta “vittimizzazione secondaria” o “ri–vittimizzazione”, è stato introdotto il comma 4-quater dell’art. 498 c.p.p. che permette al maggiorenne vittima di particolare vulnerabilità, status desunto anche dal tipo di reato per cui si procede”, di avvalersi delle forme protette di audizione dibattimentale.

Nonostante il recepimento, nel nostro ordinamento, delle due Convenzioni, il sistema processuale di tutela per le vittime vulnerabili è ancora carente.

4. Le indagini preliminari e le indagini difensive

Da quanto sopra esposto è emerso che alla persona offesa sono riconosciuti dal Legislatore italiano plurimi poteri, diritti e facoltà che possono assumere un ruolo decisivo nella fase delle indagini preliminari. Tali poteri possono essere esercitati in modo compiuto solo mediante la difesa tecnica espletata da un difensore appositamente incaricato dalla persona offesa. Difensore che potrà decidere se compiere o meno indagini difensive.

Vediamo, ora, di esaminare, seppur brevemente, la fase delle indagini preliminari per, poi, proiettare la luce del faro sulle indagini difensive.

Il “direttore dei lavori” o “dominus” della fase delle indagini preliminari è il pubblico ministero. In questa fase, accanto a lui, si muovono anche altri soggetti: la polizia giudiziaria e il difensore. Non va dimenticata la presenza del Giudice delle Indagini Preliminari (GIP) che interviene al fine di garantire la legalità delle stesse, esercitando, dunque, una giurisdizione di garanzia.

Al pubblico ministero, una volta ricevuta la notitia criminis, spetta il compito di ricercare e raccogliere le prove a carico dell’indagato per una giusta decisione, ovvero decidere se esercitare l’azione penale o, in alternativa, fare richiesta di archiviazione.

Appartiene alla natura intrinseca del processo di parti riconoscere, accanto al potere investigativo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, il diritto di indagine ai soggetti privati, quale prima espressione del diritto alla prova, e più precisamente del diritto di difendersi provando”(G. Frigo –Avvocato).8

Quanto al ruolo del difensore, in questa fase iniziale del processo, ovvero la fase delle indagini preliminari, è bene ricordare che in passato il suo ruolo era del tutto passivo: il difensore non era ritenuto soggetto deputato alla scoperta della verità processuale. Veniva visto “quasi come un convenuto” a cui spettava il compito di resistere alla pretesa punitiva formulata dal pubblico ministero.9

Attualmente ha assunto un diverso ruolo, id est quello di soggetto attivamente incaricato di far valere la posizione e gli interessi del proprio assistito.

A questo punto è bene citare l’art. 24 Cost. il quale ai commi 1 e 2 così sancisce “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.

Leggendo attentamente il dettato costituzionale, a parere di chi scrive, il diritto di difesa non può fare a meno del potere per il difensore di ricercare e raccogliere prove idonee a dimostrare l’innocenza dell’imputato, passando, così, da una difesa in cui il difensore aveva un ruolo passivo, ad una difesa in cui il difensore ha un ruolo attivo, in grado di predisporre un progetto di difesa, ovvero disegnare la strategia difensiva.

L’art. 38 disp.att. c.p.p. “Facoltà dei difensori per l’esercizio del diritto alla prova” riconosceva al difensore la facoltà di presentare direttamente al Giudice gli elementi probatori ritenuti rilevanti ed ottenere, di conseguenza, l’inserimento della documentazione nel fascicolo delle indagini preliminari. Tale articolo è stato, poi, abrogato dall’art. 23 della Legge n. 397/2000 che ha introdotto gli artt. 391-bis e segg. c.p.p., ossia le Investigazioni difensive.

L’ingresso delle indagini difensive ha, dunque, modificato il nostro sistema penale o meglio la fase più importante: quella delle indagini. In che modo? Attraverso il ridimensionamento del ruolo del pubblico ministero e con un difensore che è investito di un ruolo importante, sin dalle prime battute del processo penale, cioè con il compito di assicurare abinitio, anche in sede di indagini, un’ottima difesa tecnica.

Il rapporto tra assistito ed avvocato assume, così, notevole valore, in quanto in mancanza di tale rapporto ci si trova ad operare senza quelle preziose informazioni che solo l’assistito è in grado di fornire.

Dunque, il diritto di difesa, costituzionalmente garantito ex art. 24 Cost., deve essere inteso come potere di assistenza tecnica e professionale nello svolgimento di ciascun processo, ciò al fine di assicurare il contraddittorio e rimuovere ogni ostacolo a far valere le ragioni delle parti.

L’art. 327 bis c.p.p. rubricato “Attività investigative del difensore” così recita “Fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, nelle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI bis del presente libro.

La facoltà indicata al comma 1 può essere attribuita per l’esercizio del diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il giudizio di revisione.

Le attività previste dal comma 1 possono essere svolte, su incarico del difensore, dal sostituto, da investigatori privati autorizzati e, quando sono necessarie specifiche competenze da consulenti tecnici“.

Tale norma assume un ruolo fondamentale in quanto, in primis, evidenzia il ruolo, lasciatemi passare la locuzione, “da protagonista” che viene riconosciuto dal nostro Legislatore al difensore in tale fase e, in secundis, indica il momento a partire dal quale è possibile lo svolgimento delle indagini difensive. Detta facoltà può esercitarsi sin dal momento del conferimento dell’incarico professionale e ciò indipendentemente dalla instaurazione di un procedimento penale a seguito dell’iscrizione oggettiva nel registro delle notizie di reato – ex art. 335 c.p.p..

All’ultimo comma dell’art. 327 bis c.p.p. il Legislatore ha precisato che, se è necessario, possono intervenire nello scenario del crimine, su incarico del difensore, per svolgere attività investigativa il sostituto, investigatori privati autorizzati e, quando sono necessarie specifiche competenze, consulenti tecnici.

Ai sensi dell’art. 391-nonies c.p.p., rubricato “Attività investigativa preventiva” le indagini possono aver luogo anche preventivamente rispetto ad un procedimento penale, la cui instaurazione è solo ipotetica.

La norma stabilisce che il mandato professionale deve risultare da atto scritto, conformemente a quanto stabilito dall’art. 96 c.p.p..

In che modo il difensore si muove in sede di indagini difensive?

Un esempio. Sopralluogo sulla scena del delitto: fattispecie delittuosa perpetrata in una proprietà privata. I primi interrogativi che sorgono sono: Il difensore può accedere ai luoghi? Qual è il modus operandi del potere di accesso?

La risposta a questi interrogativi è fornita dall’ art. 391-septies c.p.p. ” Accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico” e dall’art. 391-sexies c.p.p. ” Accesso ai luoghi e documentazione”.

Senza ombra di dubbio il difensore ha l’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico; si tratta, in ogni caso, di un accesso condizionato. Condizionato perché? Perché per poter accedere è necessario ottenere un’autorizzazione.

Ma chi è il soggetto legittimato a prestare il consenso per l’accesso ai luoghi privati?

Fino al momento in cui non interverrà la polizia giudiziaria, soggetto legittimato sarà colui che ha la disponibilità del luogo e che ha la possibilità di esercitare sullo stesso uno ius excludendi, in virtù della qualità di proprietario, possessore et similia.

Con l’intervento della polizia giudiziaria, soggetto legittimato a prestare il consenso per l’accesso ai luoghi sarà la stessa polizia in quanto investita del dovere – potere pubblico di curare et la conservazione dello stato dei luoghi finalizzato alla ricerca delle tracce del reato e della conservazione delle stesse.

Quindi, intervenuta la polizia giudiziaria, di fronte al diniego da parte della stessa di accesso ai luoghi, al difensore non resterà che formulare al Giudice – GIP- istanza di autorizzazione. Chi scrive ritiene fondamentale evidenziare, però, che una volta assunta dal dominus (pubblico ministero) la direzione delle indagini, si trasferirà in capo a costui il potere di disponibilità del luogo, con la conseguenza che il difensore, al fine di poter procedere al sopralluogo, dovrà interpellare prima il pubblico ministero, e, in caso di diniego, il Giudice.

Dal tenore della norma ex art. 391-sexies c.p.p. si desume che non vi è obbligo per il difensore di redigere verbale di sopralluogo e delle operazioni connesse. Difatti, il Legislatore così si esprime “[…]il difensore, il sostituto e gli ausiliarii ndicati nell’articolo 391-bis

possono redigere un verbale nel quale sono riportati: a) la data e il luogo dell’accesso; b) le proprie generalità e quelle delle persone intervenute; c) la descrizione dello stato dei luoghi e delle cose; d) l’indicazione degli eventuali rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi eseguiti, che fanno parte integrante dell’atto e sono allegati al medesimo. Il verbale è sottoscritto dalle persone intervenute”.

L’uso del “possono” esclude l’obbligatorietà e sottintende che, qualora il difensore decidesse di dare un valore processuale all’attività espletata, non potrà che farlo a mezzo di verbale delle operazioni compiute. Tale verbale verrà, poi, inserito nel fascicolo di cui all’art. 391 octies c.p.p. “Fascicolo del difensore”.

Ipotizziamo, ora, che il delitto sia stato consumato in luogo pubblico. Quid iuris?

In questo caso il difensore, per poter accedere al luogo pubblico ed effettuare il sopralluogo e le attività connesse, deve, come nella prima ipotesi, avanzare richiesta di autorizzazione alla polizia giudiziaria, poi al pubblico ministero e, da ultimo, in caso di diniego, al Giudice (GIP).

Quale tipo di attività può svolgere il difensore che ha l’accesso ai luoghi?

La risposta all’interrogativo è fornita dal nostro Legislatore nell’art. 391-sexies c.p.p. dove si parla di accesso finalizzato a “prendere visione dello stato dei luoghi, ovvero per procedere alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi”.

Ai sensi dell’art. 391-decies c.p.p. il difensore può compiere accertamenti tecnici non ripetibili. In questo caso “[…]il difensore deve darne avviso, senza ritardo, al pubblico ministero per l’esercizio delle facoltà previste, in quanto compatibili, dall’art.360[…].”

Ai sensi del comma 2 dell’art. 391-decies c.p.p. si desume che il difensore può compiere anche “atti non ripetibili”, in questo caso il pubblico ministero avrà mera facoltà di intervento senza diritto di preavviso.

Quale limite incontra l’attività del difensore?

L’attività del difensore incontra un limite invalicabile nel caso in cui la scena del crimine sia sottoposta a sequestro disposto dall’Autorità Giudiziaria.

L’attività investigativa del difensore è obbligatoria?

Sull’interrogativo l’Unione delle Camere Penali ha ritenuto che debba essere considerata “un’attività deontologicamente obbligatoria per l’avvocato ogni qualvolta se ne renda necessaria l’esecuzione per la migliore tutela dell’assistito”.

Ciò significa che l’avvocato deve valutare la necessità di procedere a tali indagini e, nel momento in cui le ritiene fondamentali, le deve svolgere con la massima professionalità e precisione al fine di garantire l’autenticità di tutta l’attività svolta. L’introduzione delle indagini difensive ha richiesto la necessità di rivedere le norme deontologiche per adeguarle al nuovo impianto legislativo e tramite l’approvazione, da parte del Consiglio dell’Unione delle Camere Penali, delle “Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive”.10

Tali Regole sono state, poi, recepite da una Commissione di Revisione in seno al Consiglio Nazionale Forense, il quale aveva progettato un modello di regolamento delle investigazioni difensive che disciplinava l’attività del difensore in relazione ai doveri di diligenza, di segretezza e riservatezza e delle norme attinenti ai rapporti con i testimoni.

Quanto ai rapporti tra queste Regole e il Codice Deontologico, occorre richiamare l’attenzione sull’art. 1 delle Regole predisposte dall’Unione, il quale afferma che “nello svolgimento delle investigazioni difensive il difensore osserva le norme del Codice deontologico forense, nonché le ulteriori norme degli articoli che seguono nel rispetto del principio di lealtà processuale”. E, ancora, al comma 2 dell’art. 1 si afferma, peraltro, che “nessuna distinzione circa i doveri professionali in materia di investigazioni difensive è consentita tra difensore di fiducia e difensore d’ufficio”.

A chiusa di questo breve excursus il richiamo va alle norme sui principi generali: l’art. 12 sul dovere di diligenza, a norma del quale l’avvocato “deve svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, assicurando la qualità della prestazione professionale” e l’art. 50 sul dovere di verità che prevede una serie di divieti: al comma 1 si afferma che “l’avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi“; al comma 2 si prevede che “l’avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi”, specificando, altresì, al comma 3, che laddove l’avvocato apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi provenienti dalla parte assistita, “non puòutilizzarli o deve rinunciare al mandato”. La violazione di tali divieti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare.

Di notevole importanza in materia di indagini difensive è anche l’art. 55 dedicato ai “Rapporti con i testimoni” che contiene una dettagliata disciplina del contatto tra il difensore e le fonti testimoniali che integrano quelli previsti dall’art. 391-bis c.p.p. introdotto dalla legge n. 397/2000: in particolare, al comma 1, si afferma che “l’avvocato non deve intrattenersi con testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”; al comma 2 si specifica che “il difensore, nell’ambito del procedimento penale, ha facoltà di procedere ad investigazioni difensive nei modi e termini previsti dalla legge“.

L’art. 55, inoltre, stabilisce che il difensore è tenuto al segreto sugli atti delle investigazioni difensive e sul loro contenuto, finché non ne faccia uso nel procedimento. Nel caso in cui il difensore si avvalga di sostituti, collaboratori, investigatori privati autorizzati e consulenti tecnici, “può fornire agli stessi tutte le informazioni e i documenti necessari per l’espletamento dell’incarico”. E, ancora, si stabilisce che il difensore “deve conservare scrupolosamente e riservatamente la documentazione delle investigazioni difensive per tutto il tempo necessario o utile all’esercizio della difesa”.

L’art. 8 delle Regole emanate dall’Unione delle Camere Penali in relazione ai doveri del difensore prevede che il difensore, il sostituto e gli ausiliari incaricati possono procedere senza formalità alla individuazione delle persone che possono riferire circostanze utili alle investigazioni difensive ed alla individuazione delle altre fonti di prova e, più in generale, delle altre fonti di notizie utili alle indagini.

Oltre a tutto, la disciplina va coordinata con quanto previsto dall’art. 12 delle Regole, il quale, a tale riguardo, stabilisce che “il difensore o il suo sostituto danno tutte ledisposizioni necessarie per realizzare condizioni idonee ad assicurare la genuinità delle dichiarazioni”.

Tali norme deontologiche sono espressione di principi morali, la cui trasgressione rileverebbe solo in sede disciplinare.

In definitiva, il difensore deve procedere all’attività investigativa nel rispetto dei principi di lealtà, correttezza ed onestà al fine di garantire la Verità di tutta l’attività espletata e la realizzazione del principio del “Giusto Processo” reclamato dall’art. 111 Cost..

5. La testimonianza della vittima vulnerabile nella fase delle indagini preliminari e nell’incidente probatorio

Sotto la spinta di una recente politica criminale internazionale e sovranazionale e grazie all’affermarsi della vittimologia definita da Gulotta “una disciplina che ha per oggetto lo studio della vittima di uncrimine, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con il criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine”, il nostro Legislatore ha introdotto una serie di regole processuali a tutela di una categoria particolare di testimoni, ovvero i “testimoni vulnerabili”.

I testimoni sono gli occhi e gli orecchi dell’umana giustizia”, così scriveva il filosofo, giurista ed economista inglese Jeremy Bentham (1748-1832), ma sino a che punto può ritenersi valida una tale affermazione?

A parere di chi scrive tale affermazione non può ritenersi valida ed attuale.

Infatti, nonostante il testimone sia chiamato ad impegnarsi a dire il vero, si tratta di un impegno che non può mantenere, questo perché la testimonianza resa nel processo può essere screditata dall’effetto temporale in quanto spesso resa a distanza di molto tempo dall’accadimento del fatto – reato è, quindi, plausibile che i ricordi nel frattempo siano stati modificati. Il testimone, pertanto, non potrà mai essere in grado di riferire il fatto come effettivamente è accaduto in quanto entrano in gioco elementi che possono distorcerne la rappresentazione come ad esempio gli stati d’animo del testimone. La testimonianza non è altro che un ricordo di un ricordo, non può essere considerata una fedelissima riproduzione di un fatto obiettivo, ma sempre una deformazione della realtà.

Prima di affrontare il tema della testimonianza resa dalla vittima vulnerabile, è bene focalizzare l’attenzione sulla testimonianza che è il mezzo di prova più importante del sistema processuale penale, quella che risulta essere la più efficace al fine di ricostruire la reale dinamica del fatto – reato. Il testimone, dunque, viene ammesso dal Giudice a rendere in giudizio le proprie dichiarazioni di scienza, nel contraddittorio tra le parti, circa i fatti rilevanti ai fini del decidere.11

Nel corso del dibattimento, il testimone viene esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova attraverso l’esame incrociato (cross-examination).

Tra gli obblighi che il codice di procedura penale prevede per il testimone vi è quello di “rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte”; in caso contrario incorrerà nel delitto di falsa testimonianza ex art. 372 c.p..

L’esame deve svolgersi mediante domande su fatti specifici e sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte o quelle che tendono a suggerire le risposte.

Il Legislatore, al riguardo, ha dettato le modalità di assunzione della prova testimoniale al fine di offrire al Giudice e alle parti di determinare e misurare la credibilità del testimone e l’attendibilità della sua deposizione.

Quanto alla capacità a rendere testimonianza, l’art. 196 c.p.p. sancisce al comma 1 la capacità di ogni persona a rendere testimonianza, precisando al comma 2 come il Giudice possa disporre gli opportuni accertamenti, tesi a valutare ed accertare l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, al fine di valutare le dichiarazioni rese dal testimone. In altri termini, il giudice, perché possa maturare il libero convincimento, potrebbe avvertire la necessità di far accertare preliminarmente l’idoneità del soggetto a testimoniare.12

Tra i soggetti che potrebbero essere chiamati a rendere testimonianza vi rientrano quella categoria di soggetti definiti “deboli” o “vulnerabili”, ossia quelle persone che per età, condizioni fisiche o psichiche sono destinatari di una normativa maggiormente protettiva da utilizzare in deroga a quelle che sono le ordinarie regole di assunzione della prova testimoniale o dichiarativa.13

Perciò, in relazione a questa categoria di testimoni, si pensi al minore, all’infermo di mente…, è giustificata l’adozione di particolari modalità di assunzione delle relative dichiarazioni, sia durante la fase delle indagini preliminari, sia nell’eventuale incidente probatorio, sia in fase dibattimentale.

All’interno della categoria degli offesi vulnerabili vi rientrano:

-le vittime a vulnerabilità presunta: vittime offese da reati a riconosciuto impatto traumatico (artt.351 comma 1- ter e 392 comma 1-bis c.p.p.);

-le vittime vulnerabili atipiche: sono una categoria di persone da individuare in concreto sulla base delle indicazioni fornite dall’art. 90 quater c.p.p..

Lo status di vulnerabilità della persona offesa è, dunque, desunta non solo dall’età, ma anche dallo stato di infermità, di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e dalle circostanze del fatto per cui si procede.

La figura del vulnerabile atipico è, dunque, individuata dal pubblico ministero prima e dal Giudice poi dal momento che da tale qualificazione discendono rilevanti conseguenze: prima fra tutte il binario privilegiato per la raccolta della testimonianza sia nella fase delle indagini che attraverso il ricorso all’incidente probatorio.

La fase dibattimentale costituisce la sede che maggiormente espone la persona offesa dal reato al rischio di una vittimizzazione secondaria.14

In questo senso, “i fronti su cui opera la protezione delle vittime […] sono almeno due15: vi è sia una tutela nel processo – assicurata da una modalità speciale di acquisizione della testimonianza – sia quella dal processo, realizzabile con una riduzione allo stretto necessario della partecipazione attiva del soggetto leso dal reato. L’art. 20, lett. b, Direttiva 2012/29/UE stabilisce che “il numero delle audizioni della vittima sia limitato al minimo e [che esse] abbiano luogo solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale”.

Possiamo, dunque, affermare che l’audizione nella fase dibattimentale della vittima può diventare un evento residuale a seguito della estensione dello spazio riservato alla raccolta anticipata della medesima testimonianza attraverso lo strumento dell’incidente probatorio. Dunque, il primo giudizio sulla sussistenza di una condizione di particolare vulnerabilità non presunta spetterà al pubblico ministero nella fase della assunzione delle sommarie informazioni testimoniali (SIT).

Nella fase della assunzione delle sommarie informazioni testimoniali il pubblico ministero, così come la polizia giudiziaria si avvarranno della collaborazione di un esperto in psicologia o in psichiatria. È in queste situazioni che la psicologia giuridica è chiamata ad operare all’audizione protetta della vittima vulnerabile.

L’audizione protetta può essere svolta sia in sede di indagini preliminari, a seguito di denuncia o querela, sia in sede di incidente probatorio. Il Legislatore all’art. 196 c.p.p. prevede che chiunque è idoneo a rendere testimonianza, ma vi sono eccezioni per le quali lo psicologo o la psicologa forense possono essere chiamati ad effettuare una consulenza tecnica se con nomina del pubblico ministero, o una perizia se con nomina del GIP, per accertare l’idoneità a rendere testimonianza di quella persona.

In sede di indagini preliminari non si parla di testimonianza che è propria della fase dibattimentale, ma di sommarie informazioni testimoniali (SIT). All’esperto in psicologia o in psichiatria chiamato a collaborare per le sue competenze specifiche a fianco al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria viene chiesto di raccogliere solo sommarie informazioni testimoniali (SIT) che permettono al pubblico ministero di avere tutti gli elementi per decidere: chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio.

Spesso l’audizione avviene durante la fase delle indagini preliminari ad opera, di rado, del pubblico ministero (art. 362 comma 1-bis c.p.p.) o più spesso su delega alla polizia giudiziaria (art. 351 comma 1-ter c.p.p.). Entrambi gli articoli summenzionati utilizzano l’espressione “si avvale dell’ausilio…” evidenziando come il pubblico ministero non può effettuare autonomamente l’audizione protetta di una persona minorenne. Il D. Lgs. n. 212/2015 ha allargato questa procedura anche a “una persona offesa, anche maggiorenne, in condizione di particolare vulnerabilità”.

Il nostro codice, recependo la normativa comunitaria, ha previsto che sia nella fase di indagini preliminari, che nella fase dell’udienza preliminare, nel caso si proceda per il reato di maltrattamenti, di stalking, di reati in materia di libertà sessuale, etc., la testimonianza delle persone vulnerabili può essere assunta mediante incidente probatorio anche al di fuori delle ipotesi di non rinviabilità dell’atto: il cosiddetto incidente probatorio “liberalizzato” o “speciale”(art. 392 comma 1-bis c.p.p.). Il codice di procedura penale ai fini di assicurare protezione al minore prevede che l’esame del testimone minore possa svolgersi in un luogo diverso dal tribunale, documentando integralmente lo stesso con strumenti fonografici e audiovisivi (art. 498, comma 4-bis, c.p.p.).

L’art. 498, al comma 4-ter, c.p.p., poi, dispone che – nel caso di reati di cui agli artt. 572, 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies e 612 bis del codice penale, l’esame del minore “vittima” del reato venga effettuato, su sua richiesta o a istanza del suo difensore, “mediante l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico”. Si tratta di un mezzo di protezione pensato esclusivamente per l’offeso, il quale viene – in questa e unica occasione all’interno del codice di procedura penale – individuato con il termine “vittima”.16

Constatato che la partecipazione al dibattimento della vittima vulnerabile espone la stessa al rischio di vittimizzazione, nonostante il Legislatore abbia introdotto regole di protezione da adottare in tale sede in caso di esame testimoniale, si è cercato di restringere al massimo la sua partecipazione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 14/2021, ha stabilito che è legittima la previsione di legge che dispone l’ascolto anticipato del minore testimone di reati sessuali in quanto soggetto fragile da non esporre allo stress del dibattimento.

L’assunzione anticipata della testimonianza del minorenne, realizza una duplice finalità:

  1. una di rilievo costituzionale: cioè l’esigenza di salvaguardare la personalità delminore attraverso l’utilizzo dell’istituto dell’incidente probatorio speciale. Più precisamente preservare il minore “dagli effetti negativi che la prestazione dell’ufficio di testimone può produrre in rapporto alla [sua] peculiare condizione”, mediante la sua sottrazione, in linea di principio, allo strepitus fori e la previsione di una sua rapida fuoriuscita dalla macchina giudiziaria;
  2. una di natura endoprocessuale: l’anticipazione della testimonianza, soprattutto nel caso si proceda per reati attinenti alla sfera sessuale, assicura la genuinità della formazione della prova, in quanto la assunzione di essa in un momento quasi immediato alla commissione del fatto costituisce anche una garanzia per l’imputato perché lo tutela dal rischio di indebolimento dell’apporto cognitivo che contraddistingue, in particolare, il mantenimento del ricordo del minore.

L’istituto dell’incidente probatorio si è rivelato, dunque, un ottimo istituto di tutela per i diritti fondamentali della persona con un sacrificio minimo e tollerabile per l’impostazione accusatoria, tipica del sistema processuale italiano.17

Originariamente l’art. 392 c.p.p. disciplinava esclusivamente i casi di stretta urgenza – id est di oggettiva non rinviabilità –, in cui la prova poteva essere raccolta in una fase antecedente a quella di naturale assunzione, ovvero nella fase dibattimentale.

Oggi, l’incidente probatorio “ha […] perso i suoi connotati essenziali di esclusivo mezzo di formazione anticipata della “prova condizionabile”.18

Lo status di fragilità psicologica di soggetti che hanno subito reati particolarmente lesivi della persona, unitamente alla labilità dei loro ricordi19, ha indotto il Legislatore ad elaborare l’art. 392, comma 1-bis, c.p.p., il quale contempla l’assunzione – in incidente probatorio – della testimonianza non solo del minore, ma anche della persona offesa maggiorenne (e non inferma di mente) dei crimini elencati dalla norma stessa, al di fuori delle ipotesi di cui al primo capoverso. La nuova richiesta di contraddittorio anticipato è formulata dal pubblico ministero, ovvero dalla persona sottoposta alle indagini; l’offeso può limitarsi solamente a sollecitare l’organo dell’accusa.

È bene chiedersi: con la nuova formulazione dell’incidente probatorio o contraddittorio anticipato la vulnerabilità personale della fonte di prova è salvaguardata?

La risposta è negativa in quanto l’incidente probatorio “speciale”, mira a garantire la genuinità delle dichiarazioni con esso raccolte e la vittima potrebbe, comunque, rivivere il trauma patito.

In definitiva, tale istituto, “seppur utilissimo a perseguire le finalità inerenti la genuinità della prova dichiarativa […], risulta […] teleologicamente incoerente con le esigenze di serenità della vittima”.20

Nonostante pareri discordi sull’opportunità di fare ricorso al contraddittorio anticipato o incidente probatorio speciale, molti Autori hanno riconosciuto tale istituto come la strategia più efficace di protezione dell’offeso dal pericolo di vittimizzazione secondaria o ri- vittimizzazione, senza porsi in contrasto con il principio del Giusto Processo ex art. 111 Cost..

Nonostante i diversi interventi legislativi, difetta ancora una disciplina completa, soddisfacente ed armonizzata in tutto il territorio nazionale relativa alle modalità protette di audizione del soggetto passivo in indagini preliminari.

6. La vittimologia e la vittimizzazione secondaria o ri-vittimizzazione

All’interno del codice penale e del codice di procedura penale si trovano espressioni come “l’offeso”, “la persona offesa”, “la persona offesa dal reato” oppure “soggetto passivo”, ma mai il termine “vittima”.

Per vittima si intende “chi sia titolare del bene giuridico protetto dal precetto penale violato”.21

La vittimologia nasce nel 1948 come scienza che ha come suo oggetto di studio la vittima del reato. Essa è descritta da Gulotta e collaboratori come: “la disciplina che studia il crimine dalla parte della vittima con scopi diagnostici, preventivi, riparativi e trattamentali del reato e della conseguente vittimizzazione”.22

È proprio questa scienza che ha reso protagonista la figura della vittima all’interno del procedimento penale “riconoscendola, non solo, come soggetto passivo del reato, ma come una figura in grado di influire in modo significativo sulla dinamica criminale”.

Nonostante i criminologi fossero a conoscenza dell’importanza relativa ai rapporti tra criminale e vittima, è solo negli anni Quaranta del Novecento che essi hanno avvertito la necessità di allargare le indagini sul soggetto passivo del reato, facendo leva sulla sua personalità, per giungere ad una migliore comprensione del fenomeno criminoso.

Il merito da attribuire alla vittimologia è quello di aver messo in luce, all’interno della diade criminale, la figura della vittima, intesa non solamente come soggetto che subisce passivamente le conseguenze di un reato nei suoi confronti, ma come parte attiva, che può addirittura diventare predominante durante un processo di vittimizzazione.

Quando si parla di vittima non si può non fare riferimento al concetto di vittimizzazione, in quanto al concetto di vittima si collega il concetto di sofferenza.

A seguito degli innumerevoli casi di cronaca nera che ultimamente stanno macchiando la nostra società, gli addetti ai lavori hanno rivolto la loro attenzione alla “vittimizzazione secondaria” o “ri-vittimizzazione”.

Con tale espressione si indica “il rischio che la vittima possa subire danni aggiuntivi, solitamente non deliberati, proprio da quelle figure che in realtà dovrebbero garantirne la tutela, come ad esempio i servizi socio-sanitari, la polizia, gli avvocati e i magistrati” (Bouchard, 2019).

Si distingue tra vittimizzazione primaria e vittimizzazione secondaria.

La vittimizzazione primaria si riferisce agli effetti che derivano direttamente dal reato che la vittima ha subito; si tratta, dunque, delle conseguenze fisiche, psicologiche, economiche dei traumi subiti, attribuibili al reato.

La vittimizzazione secondaria o ri-vittimizzazione, invece, indica quelle conseguenze negative e dolorose indirettamente collegate al reato, ma derivanti, ad esempio, dall’impatto che la vittima ha con la macchina giudiziaria e i suoi protagonisti.

Occorre precisare che, vigendo nel nostro sistema penale il principio di non colpevolezza, secondo il quale l’imputato è considerato innocente fino alla sentenza definitiva, ne consegue che sino a quel momento non esiste un colpevole, né una vittima. In altri termini, finchè non è ascrivibile al soggetto nei cui confronti si procede la responsabilità della cosiddetta vittimizzazione primaria, egli non può “pagare lo scotto” della cosiddetta vittimizzazione secondaria.23

La vittima in questo caso viene considerata in relazione all’impatto del suo percorso nelle fasi derivanti dalla vittimizzazione primaria, quali le fasi delle indagini preliminari e del processo.

Si tratta di momenti delicati in quanto la persona vittima di reato, venendo per la prima volta a contatto con il sistema giudiziario, rischia di essere ulteriormente danneggiata da un punto di vista psicologico, per via di errori o inottemperanze commessi dalle istituzioni e dagli esperti che si muovono all’interno della macchina processuale.

In altri termini, i soggetti vittime di reato rischiano di subire un ulteriore danno che non risulta essere causato direttamente dal reato, ma da quelle figure professionali che adottando un determinato modus agendi dovrebbero garantire loro maggiore tutela evitando il peso di gravi sofferenze psicologiche.

Su tale fenomeno esistono pochi contributi questo perché la vittima del reato per anni ha occupato all’interno del sistema processuale penale una posizione marginale, mentre veniva posta attenzione esclusivamente sull’autore del reato. Questa posizione marginale ha privato la vittima di due caratteristiche fondamentali: l’identità – cioè la negazione di autonomia, indipendenza, capacità di agire – e la comunità, ovvero estraniata dalla rete sociale.

Si è giunti, così, a capire che le vittime necessitano di un supporto non solo materiale ed economico, ma anche psicologico ed emotivo, e non solo immediatamente dopo la commissione del fatto di reato, ma anche durante il corso del giudizio e nelle fasi successive.

È provato che l’avvio dell’iter procedimentale provoca nella persona offesa, cioè nella vittima, pesanti frustrazioni nel momento in cui viene chiamata a ripercorrere esperienze mortificanti.

A tale riguardo, occorre menzionare la Decisione quadro del 15 marzo 2001, n. 2001/220/GAI del Consiglio dell’Unione Europea, la quale, all’art. 8, par. 1, dispone – in via generale – che ogni Stato membro assicuri “un livello adeguato di protezione allevittime di reati ed eventualmente ai loro familiari o alle persone assimilabili, in particolare per quanto riguarda la sicurezza e la tutela dell’intimità della vita privata, qualora le autorità competenti ritengano che esista una seria minaccia di atti di ritorsione o prova certa di un serio intento di intromissione nella sfera della vita privata”.

La medesima norma lascia, poi, ai sistemi giuridici interni “un ampio potere discrezionale quanto alle concrete modalità di conseguimento degli obbiettivi […] perseguiti”.24

Essa recita, per l’appunto, che “ove sia necessario proteggere le vittime, in particolare lepiù vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base a una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano dicl conseguire tale obbiettivo e che

siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento” (art. 8, par. 4, Decisione quadro 2001/220/GAI).

Attenzione: il momento in cui l’offeso si trova a dover rendere la sua versione dei fatti dinnanzi all’autorità giudiziaria è il momento che maggiormente lo espone all’eventualità di una sua vittimizzazione secondaria o ri-vittimizzazione.

Nonostante nel sistema processuale italiano siano stati adottati opportuni accorgimenti in sede di deposizione della vittima in fase dibattimentale, le esigenze dell’offeso continuano a ricoprire un interesse secondario.

Si pensi, ad esempio, all’art. 498, comma 4, c.p.p., che recita: “[l’]esame testimoniale del minorenne è condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti. Nell’esame il presidente può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di unesperto di psicologia infantile”.

Tale disposizione deroga alle modalità tradizionali di svolgimento dell’esame testimoniale, per due motivazioni:

  1. quella di non pregiudicare la personalità del minore;
  2. quella di assicurargli una serenità tale da considerarlo una fonte attendibile.

La normativa europea offre preziosi suggerimenti volti a proteggere l’integrità della vittima durante il giudizio penale, riducendo al massimo l’invasività del rito; prescrivendo che la vittima venga sentita per tempo – da persone specializzate e in luoghi idonei, in modo da consentire alla stessa di elaborare e nutrire un sentimento di fiducia con l’agente di polizia – evitando le ripetizioni non necessarie delle audizioni nel corso delle indagini e durante il giudizio, nonché il contatto visivo diretto tra aggressore e aggredito, mediante l’utilizzo di tecnologie di comunicazione più o meno sofisticate.

Si impone, inoltre, una disciplina che limiti al massimo la pubblicità delle udienze e che vieti la sottoposizione del teste vulnerabile a domande superflue sulla vita privata. Quanto al trattamento di tutela, destinato in modo particolare alle vittime minorenni, le fonti europee si sono ispirate ai canoni dettati dalla Convenzione di Lanzarote.

Sul presupposto che i procedimenti penali contro i reati compiuti a danno di minori debbano essere considerati “a priority and carried out without any unjustified delay” – procedere senza indugio – (art. 30, par. 3, Convenzione di Lanzarote), si prescrive che le audizioni della persona offesa abbiano luogo immediatamente dopo la segnalazione dei fatti alle competenti autorità, in locali adatti allo scopo e alla presenza di operatori con un’apposita formazione. Si impone, altresì, di ridurre allo stretto indispensabile – ai fini delle indagini e del procedimento – le occasioni in cui il minore viene sentito, dove lo si vuole accompagnato da un rappresentante o da un adulto di sua scelta. Si contempla, poi, la possibilità che la vittima minorenne possa essere ascoltata in aula, senza essere fisicamente presente, avvalendosi di idonee strumentazioni tecnologiche di comunicazione.

Nelle particolari ipotesi di procedimenti contro reati di tratta o legati allo sfruttamento sessuale di soggetti minori, gli Stati membri sono chiamati ad adottare tutte le accortezze necessarie, affinché le deposizioni della vittima – o del mero testimone minorenne – possano essere videoregistrate. In tal modo – conformemente alle legislazioni interne –, le videoregistrazioni possono essere utilizzate come prova nel procedimento penale, evitando che il minore sia più volte chiamato a rendere dichiarazioni.

Per completezza espositiva non si può non richiamare l’attenzione, per quanto riguarda l’audizione del minore, alla Carta di Noto, protocollo di intervista nato nel 1996 e, poi, aggiornato da ultimo nel 2017.

L’intervista segnalata per il testimone vulnerabile dalla Carta di Noto è la cosiddetta intervista cognitiva, una procedura nata dalla ricerca psicologica per fornire agli addetti del procedimento penale un metodo scientifico che consenta di ottenere resoconti meticolosi del fatto – reato. È caratterizzata da una strategia di recupero guidato: l’intervistatore specializzato si limita ad assistere colui che è sottoposto a prova dichiarativa nel percorso di accesso alla traccia di memoria, senza esercitare alcuna forma di condizionamento. Tale strategia di recupero guidato si articola in diverse fasi:

  1. l’intervistatore deve cercare di costruire un rapporto di fiducia con l’intervistato, ponendo domande su argomenti estranei al fatto – reato;
  2. in seconda battuta l’intervistatore chiede al testimone un suo racconto libero, privo di domande, cercando di fargli ricostruire il più accuratamente possibile il contesto spaziale e temporale del fatto e lo stato psicologico vissuto in quel momento, con la descrizione delle sue emozioni e dei suoi pensieri;
  3. infine, laddove debbano essere rivolte domande, queste dovranno essere “determinative” (chi, che cosa, dove e quando), in cui inserire solo le informazioni fornite dall’intervistato sino a quel momento.

Le modalità protette e le interviste cognitive, quindi, rappresentano a tutti gli effetti gli strumenti più idonei di protezione dal processo. Le prime hanno come finalità quella di evitare la “vittimizzazione secondaria” della vittima del reato; le seconde, invece, mirano a garantire l’attendibilità delle dichiarazioni. Tali strumenti, a parere di chi scrive, senza ombra di dubbio, intaccano l’equilibrio del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, dell’imputato, il quale in sede dibattimentale si trova a confrontarsi con l’accusatore e a difendersi attraverso la formazione della prova davanti al Giudice con lo strumento dell’esame incrociato del testimone da parte della difesa.

Tale strumento di protezione – protocollo di intervista – a tutela delle vittime vulnerabili se da un lato costituisce una deroga alla regola ordinaria dell’esame incrociato, dall’altro costituisce una garanzia per la difesa dell’imputato che ha la possibilità di verificare, attraverso un metodo avvalorato scientificamente, la genuinità delle dichiarazioni testimoniali e l’iter logico – giuridico delle argomentazioni con cui nella motivazione della sentenza il Giudice ha ritenuto quella testimonianza dotata di attendibilità.

7. Il ruolo dell’Avvocato penalista nella difesa delle vittime vulnerabili

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parolaconosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola” affermava Emily Dickinson, poetessa americana dell’800.

La parola, infatti, è lo strumento essenziale per l’Avvocato.

Il processo è un insieme di parole pronunciate e scritte per la conoscenza dei fatti, per la costruzione delle argomentazioni e degli atti difensivi e per la pronuncia della Sentenza che chiude l’iter processuale con il sigillo della “Verità Processuale”.

Gli avvocati penalisti giocano un ruolo fondamentale nel garantire giustizia per le vittime e nel difendere i diritti di coloro che si trovano ad affrontare accuse di violenza sessuale, sfruttamento, induzione alla prostituzione, violenza su minori…

L’avvocato penalista – impegnato nella difesa – svolge un ruolo chiave nel garantire che i diritti dei suoi assistiti siano protetti, attraverso una comprensione approfondita delle leggi pertinenti e una difesa efficace in Tribunale, si batte per garantire un processo equo e per sfatare eventuali stereotipi.

Quando la vittima da difendere è un minore, l’avvocato in questo settore deve affrontare sfide uniche. La sua missione è quella di assicurare che i colpevoli siano puniti adeguatamente e che i diritti dei minori siano tutelati in modo completo.

L’avvocato, insomma, assume un ruolo di grande responsabilità nel garantire che la Giustizia sia servita e che i diritti delle vittime e degli imputati siano rispettati. La sua dedizione a difendere i vulnerabili e a promuovere la giustizia riflette la necessità di un approccio compassionevole e competente in un contesto così delicato.

L’avvocato deve essere “difensore” dei principi fondamentali della civiltà giuridica, garante del rispetto dei diritti umani fondamentali:

Molte professioni possono farsi col cervello e non col cuore. Ma l’avvocato no. (…) L’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’Avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità”. (Calamandrei).

Conclusioni

Da questo breve lavoro è emerso quanto sia necessario avere una conoscenza piena e particolareggiata del fatto che l’illecito deve essere considerato anche dal punto di vista della persona offesa dal reato.

I nuovi istituti introdotti sotto la spinta della normativa europea, al fine di tutelare la vittima, hanno avuto il merito di smontare il vecchio schema secondo cui mettersi dalla parte della vittima implicava, inevitabilmente, porsi contro il reo. Un simile cambiamento di prospettiva ha, così, determinato il passaggio da un ruolo marginale passivo della vittima ad un ruolo da protagonista, riconoscendogli una posizione quasi paritaria all’indagato, sin dalle prime battute del procedimento penale.

Sotto il profilo della tutela delle vittime, l’Italia, nonostante abbia recepito diverse fonti internazionali e sovranazionali, è ancora distante dall’obiettivo europeo di difendere tutte le vittime di reato che nel caso concreto evidenzino particolari esigenze di protezione.

È necessaria una normativa preventiva ad hoc che coinvolga diversi soggetti dotati di competenze specializzate. Occorre sensibilizzazione, crescita culturale, educazione, educazione alla legalità, maggiori strumenti di tutela a protezione di tutti i soggetti coinvolti.

Invocando il titolo del presente lavoro “La testimonianza della vittima vulnerabile nel processo penale”, va posto l’auspicio che il Legislatore italiano continui ad intervenire nella tutela della vittima vulnerabile con strumenti sempre più efficaci di protezione ed attuando una cultura del rispetto, di quel valore imprescindibile che è la dignità della persona, di ogni persona, a partire da chi, in concreto, si trovi per circostanza, sfortuna, nascita, territorio in condizioni particolarmente fragili, ma non per questo tali da svilire il senso di sé, l’orgoglio del proprio valore.

De jure condendo, è più che mai essenziale implementare una legislazione che consideri le vittime come soggetti forti, nel senso di portatori di diritti da tutelare con certezza ed efficacia, e spinga i soggetti, in genere, verso la giustizia e non verso la vendetta.

In tal modo, può prospettarsi all’ orizzonte la realizzazione di ciò che è insito nel corpo del nostro ordinamento, cioè la possibilità di un’effettiva rieducazione e di concreto reinserimento nella società anche da parte del reo, evitando, così, di sovrapporre, a discapito degli uni o degli altri, la tutela delle vittime alle garanzie degli imputati o ai sistemi di recupero e di reinserimento dei condannati, o viceversa.


1 ANTOLISEI F., L’offesa e il danno nel reato, Istituto italiano di arti grafiche, Bergamo, 1930, p. 111; CONSO G., Istituzioni di diritto processuale penale, Giuffré, Milano, 1969, p. 162. Inoltre, si veda AIMONETTO M.G., voce Persona offesa dal reato, in Encicolpedia del Diritto, Vol. XXXIII, Giuffré, Milano, 1983, p. 319.

2 BENE T., La persona offesa tra diritto di difesa e diritto alla giurisdizione: le nuove tendenze legislative, in Archivio penale, 2013, 2, p. 490 ss.; GRIFANTINI F.M., La persona offesa dal reato nella fase delle indagini preliminari, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, p. 24 ss.; QUAGLIERINI C., Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, Giuffré, Milano, 2003, p. 1 ss., p. 155 ss.; PARLATO L., Il contributo della vittima tra azione e prova, Torri del vento, Palermo, 2012, p. 55. Cfr. ancora AIMONETTO M.G., voce Persona offesa dal reato, in Enciclopedia del Diritto, Vol. XXXII, Giuffré, Milano, 1983, p. 318 ss.; GIARDA A., La persona offesa dal reato nel processo penale, Giuffré Milano, 1971, pp. 11-12.

3 AMODIO E., La persona offesa dal reato nel nuovo processo penale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Vol. III, Giuffrè, Milano, 1991, pp. 534-535.

    4 CORDERO F., Procedura penale, Milano, 2003

    5 Sul punto, cfr. CASSIBBA F.S., Le vittime di genere alla luce delle Convenzioni di Lanzarote e Istanbul, in BARGIS, Marta, BELLUTA, Hervé (acura di), Vittime di reato e sistema penale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 67 ss.

    6 AMALFITANO C., La tutela delle vittime di reato nelle fonti dell’Unione europea diverse dalla direttiva 2012/29/UE e le misure di attuazione nell’ordinamento nazionale, in BARGIS, Marta, BELLUTA, Hervé (a cura di), Vittime di reato e sistema penale, Giappichelli, Torino, 2017, p. 89 ss.

    7 RECCHIONE, Le vittime del reato e l’attuazione della Direttiva 2012/29/UE: le avanguardie, i problemi, le prospettive, Diritto Penale Contemporaneo, 25 febbario 2015.

    8 SIRACUSANO D., Elementi di diritto processuale penale, vol. II, cap. V, L’investigazione difensiva, p. 165.

    9 SURACI L ., Le indagini difensive, Giappichelli, Torino, 2014, p. 12.

    10 Testo approvato il 14 luglio 2001 dal Consiglio delle Camere Penali e modificato da ultimo il 19 gennaio 2007.

    11 BELTRANI S. et al., Codice di procedura penale – I codici commentati di Giuffrè, 4. Ed, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2020.

    12 DE CATALDO NEUBURGER L., Testimoni e testimonianza “deboli”, ISISC, Padova, Cedam, 2006, pp. 376 ss.

    13 ALGERI L., Il testimone vulnerabile, Milano, Giuffrè, 2017, p. 1.

    14 Si veda UBERTIS G., La prova dichiarativa debole: problemi e prospettive in materia di assunzione della testimonianza della vittima vulnerabile alla luce della giustizia sovranazionale, in Cassazione Penale, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2009, p. 4059.

    15 Così ILLUMINATI G., La vittima come testimone, in L. LUPÁRIA (a cura di), Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, Cedam, Padova, 2015, p. 72. Si veda altresì BELLUTA H., Un personaggio in cerca d’autore: la vittima vulnerabile nel processo penale italiano, in S. ALLEGREZZA, H. BELLUTA, M. GIALUZ, L. LUPÁRIA, Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Giappichelli, Torino, 2012, p. 103.

    16 Si veda SIMONATO M., Deposizione della vittima e giustizia penale. Una lettura del sistema italiano alla luce del quadro europeo, Cedam, Padova, 2016, p. 122.

    17 DI CHIARA G., voce Incidente probatorio, in Enciclopedia del Diritto, Vol. VI, Giuffré, Milano, 2002, p. 546.

    18 MICOLI A. – MONTI D., La tutela penale della vittima minore. Aspetti sostanziali e processuali, CEDAM, Padova, 2010, p. 351; BIONDI G., L’istituto dell’incidente probatorio dagli albori del codice di rito alle prospettive de iure condendo, Giuffré, Milano, 2006; RENON P., L’incidente probatorio vent’anni dopo: un istituto sospeso tra passato e futuro, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2011, pp. 1019 ss.

    19 TODARO G., Il sistema italiano di tutela della vittima del reato: analisi e prospettive, in L. Lupária (a cura di), Lo statuto europeo delle vittime di reato. Modelli di tutela tra diritto dell’Unione e buone pratiche nazionali, CEDAM, Padova, 2015, pp. 99-114.

    20 DI GIACOMO C., La tutela del minore in sede di audizione testimoniale e le prospettive di attuazione della decisione quadro del Consiglio 2001/220/GAI, in Cassazione Penale, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2011, p. 755.

    21 PARZIALE Y., Il ruolo della vittima del reato tra diritto e neuroscienze, in Cassazione Penale, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2020, p. 2139.

    22 cit. in Compendio di criminologia, 2008, p. 247.

    23 Sono di tale avviso, ad esempio, GIALUZ M., La protezione della vittima tra Corte edu e Corte di Giustizia, in Lo statuto europeo delle vittime di reato, in Giustizia penale europea, Wolters Kluwer Italia, Milano, 2015 p. 25; ORMAZABAL SANCHEZ G., El derecho de confrontación del acusado con los testigos- víctima en el processo penal español. Especial referencia al menor testigo, in La víctima menor de edad. Un estudio comparado Europa-América, a cura di T. Armenta Deu, S. Oromi Vall-Llovera, Madrid, 2010, p. 136.

    24 Così, Corte di Giustizia Unione Europea (C.G.U.E.), 21 dicembre 2011, causa C-507/10, X, § 28.

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