“…poi, nello spostare uno dei tanti fascicoletti del faldone, cadde sul tavolo una foto. Era Lucio Belli ritratto in un abbraccio con i suoi figli (…), si intuiva che fosse l’ultima immagine di una famiglia ignara che, di lì a poco, sarebbe entrata nell’inferno di un tribunale.
A un tratto scivolò sul tavolo un biglietto di auguri per la festa del papà, l’ultima trascorsa insieme, che Anna e Carlo avevano scritto per lui.
Al centro del biglietto emergevano chiari i segni delle lacrime di Lucio: avevano diluito l’inchiostro (…). Belli le aveva versate davanti a me quando mi aveva raccontato l’amore che nutriva per quei figli che stava perdendo”.[1]
(Gian Ettore Gassani)
Nel corso dei secoli, l’evoluzione del ruolo paterno nel contesto familiare e sociale è stata segnata da molteplici significativi cambiamenti. Specificamente, si è verificato il passaggio da una figura paterna dominante ed autoritaria, come il “pater familias” dell’antica Roma, a una società in cui l’applicazione del criterio della “maternal preference”, ha spesso influenzato gli organi giurisdizionali nelle decisioni relative all’affidamento dei figli in caso di separazione dei genitori, oscurando, conseguentemente, il principio di bigenitorialità introdotto con la Legge n. 54/2006.
Ruolo pregnante nell’auspicabile superamento dell’applicazione automatica del criterio della preferenza materna, è stato recentemente svolto dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 1486 del 2025.
Per chiarezza espositiva, appare opportuno guardare al passato, affrontando la tematica partendo dagli albori.
Nell’antica Roma la relazione che intercorreva tra il padre e il figlio era imperniata sulla diramazione di due concezioni: quella del pater familias e la conseguente patria potestas.
Storicamente, la famiglia era strutturata in modo piramidale, alla base erano situati i discendenti e il coniuge e, salendo verso la cuspide, si giungeva al pater familias, stella polare della gerarchia.
I primi erano soggetti alla potestas del secondo.
Il pater era detentore di una serie di poteri di tipo sovrano che qualificavano inevitabilmente il rapporto padre-figlio come tutt’altro che “democratico”, ma prettamente gerarchico e marcatamente asimmetrico, anche in relazione all’aspetto patrimoniale.
Invero, nell’esperienza romana “il pater è, dal punto di vista dei rapporti patrimoniali, il solo ad essere sui iuris (soggetto dunque di diritti): l’attività economica degli altri membri del gruppo (parentale) incrementa perciò il suo patrimonio, del quale egli solo può validamente disporre. La sua autorità personale è sui membri del gruppo assoluta”[2]; conseguentemente i figli- ritenuti incapaci per lo ius civile– non potevano avere un proprio patrimonio.
Il concetto è ben espresso e sintetizzato da Giambattista Vico: “tutti i padri erano sovrani nelle loro famiglie”[3].
Un’illusoria mitigazione relativa alla tirannia paterna si ebbe con la Rivoluzione francese, il cui fugace merito fu quello di allentare la “catena” che univa i figli ai padri.
In questo contesto temporale, la patria potestas – disanimata dai principi della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza, valori simbolo della stessa Rivoluzione- era concepita come una limitazione dei rapporti familiari.
Tale innovazione, però non ebbe lunga vita: il codice Napoleonico del 1804 testimoniava un ritorno all’autoritarismo paterno.
Nel primo Codice civile italiano del 1865, peraltro ispirato allo stesso Code Napoléon, la figura paterna continuava a corrispondere a quella di un sovrano assoluto esercitante un potere all’interno di quella piccola monarchia definita famiglia.
“In che cosa dunque risponde a questo Stato una famiglia nella quale il capo, investito di poteri dispotici fa e disfà, vuole e disvuole, autorizza e amministra, dilapida e finalmente si assenta, declinando tutti i suoi doveri e conservando tutti i suoi diritti e riunendo in sé in un connubio mostruoso il potere assoluto e la irresponsabilità?
Come mai un codice moderno ha potuto erigere in diritto tanta strapotenza […] tutta la prudenza e previdenza della legge è in pura perdita, è molto chiasso per nulla. Che se le disposizioni del codice menassero a conseguenze, la sola logica conseguenza sarebbe questa: l’inasprimento dell’anima nella parte depressa e l’abuso del potere della parte prevalente”.[4]
Solo nel corso del XX secolo la fisionomia della famiglia e, segnatamente, la figura paterna iniziò a subire un’importante revisione relativa all’affievolimento del suo grado di dispotismo.
I cambiamenti socioculturali hanno portato all’attuale sviluppo dell’Italia come una repubblica fondata su una concezione di famiglia non più intesa come “patriarcale” basata sul principio gerarchico della preminenza del padre sui figli, bensì costituzionalmente riconosciuta nella sua centralità come società naturale[5] preesistente allo stato e non derivante da esso.
Tale evoluzione è stata sollecitata dalla Legge n. 151/1975 (legge sul nuovo diritto di famiglia) il cui merito risiede nell’aver riformato il diritto di famiglia, attuando i principi sanciti nella nostra Carta Costituzionale e riconoscendo in primis la parità tra i coniugi e la parità nei confronti dei figli, relativa all’obbligo di entrambi i genitori di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, anche se nati fuori dal matrimonio[6].
Con la Riforma del 1975, la patria potestas del diritto romano sopravvive ancora, ma con caratteri mutati; essa è ormai esercitata da ambedue i genitori, così come sancito dall’art. 316 c.c. che conferisce ad entrambi poteri congiunti per l’esercizio della potestà, nell’interesse esclusivo dei figli.
Sulla scorta della Riforma del 1975, appare opportuno menzionare – benchè antecedente alla riforma medesima- la precorritrice sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 1967.
La Consulta sanciva, relativamente all’art. 316 c.c. (attualmente rubricato “Responsabilità genitoriale”)[7]che: “la patria potestà, cioè quel complesso di poteri e di doveri tendenti appunto al mantenimento, alla educazione edalla istruzione della prole, come alla cura dei relativi interessi patrimoniali, è attribuita inmodo congiunto ad entrambi i genitori, così come risulta evidente dalla detta normaimpugnata secondo cui ‘il figlio è soggetto alla potestà dei genitori’; sicché ciascuno diessi, quando esercita la potestà, lo fa ‘iure proprio’.
La madre quindi (mentre ha sempre il diritto-dovere di esercitare le funzioni inerenti alla patria potestà, sia pure in conformità delle direttive paterne) quando, nelle ipotesi previste dalla legge, viene autonomamente chiamata a tale esercizio, assume la pienezza di un potere di cui, peraltro, era già titolare. Con ciò, pertanto, può escludersi senz’altro che alla madre venga conferita solo una potestà puramente astratta e priva di pratica efficacia. E se indubbiamente, secondo il sistema del Codice, è riconosciuta una prevalenza della volontà del padre in ordine alle funzioni in esame, è altresì vero che questa distinzione ripete la sua origine dalla esigenza, comunemente avvertita in ogni umano consorzio, di apprestare i mezzi per la formazione di una volontà unitaria riferibile al consorzio stesso.
Questa esigenza infatti non può ritrovarsi anche nella società familiare che, pur essendo una istituzione a base essenzialmente etica, è tuttavia un organismo destinato a vivere ed operare nell’ambito dei concreti rapporti umani per l’attuazione dei suoi fini sociali, primo fra i quali, indubbiamente, emerge quello dell’allevamento e dell’educazione dei figli. É, pertanto, evidente la necessità che la legge garantisca nella famiglia la formazione di una volontà unitaria che si traduca in un indirizzo unitario ai fini del conseguimento dello scopo suddetto. Il sistema posto in essere dal legislatore quindi, sia pure risentendo indubbiamente della tradizione storica che ha visto nel padre il capo della famiglia, non ha fatto che provvedere alla descritta esigenza fondamentale quando ha affidato l’esercizio della potestà ad uno solo dei genitori“.
L’evoluzione relativa al fondamentale passaggio dalla patria potestà al concetto di bigenitorialità si evince anche dalla comparazione dell’art. 316 enunciato dal codice civile del 1942 rubricato “Esercizio della patria potestà“, con lo stesso art. 316 c.c., post Riforma n. 151 del 1975, rubricato “Esercizio della potestà dei genitori”, mutando così lo scenario inerente la responsabilità genitoriale.
La norma in commento è quindi stata oggetto di un progressivo cambiamento; invero il D.Lgs. n. 149/2022 (Riforma Cartabia) all’articolo 1, n. 4, ha modificato l’articolo 316 c.c. prevedendo che, relativamente alle scelte relative all’istruzione, all’educazione, nonché al trasferimento di residenza del minore, sia necessario il consenso di entrambi i genitori.
Nel caso in cui dovessero sorgere conflitti su questioni di «particolare importanza», come quelle succitate, ogni coniuge – al fine di ottenere il provvedimento più adeguato all’interesse del minore-potrà adire il giudice, il qualeadotterà la decisione maggiormente conforme all’interesse del minore stesso anche discostandosi dalle posizioni dei genitori, dopo aver sentito il minore medesimo.
Orbene, la Riforma del 1975 è stata fautrice di un vero e proprio processo evolutivo che ha portato alla nascita del diritto di famiglia moderno. Essa infatti ha apportato sostanziali innovazioni relative alla parificazione tra i coniugi e la conseguente instaurazione di un rapporto equipollente tra questi ultimi e i figli; al regime patrimoniale della famiglia e all’abolizione dell’istituto della dote; così come alla valorizzazione della famiglia di fatto, prima contrapposta a quella c.d. legittima.
Solo per brevità espositiva, in questa sede, ci si è limitati principalmente ad una focalizzazione inerente la variazione della patria potestà nella potestà genitoriale (ora responsabilità genitoriale).
Il percorso di innovazione avviato dal legislatore nel 1975 è stato ampliato mediante l’intervento di altre leggi; invero, meritevoli di menzione, in tema di diritto di famiglia, vi sono ulteriori riforme che, in tale sede, si segnalano sinteticamente.
In primis, la L. 54/2006, entrata in vigore il 16 marzo 2006, mediante la quale il legislatore ha interamente riplasmato la disciplina dell’affidamento dei figli in materia di separazione e divorzio.
In particolare, quasi vent’anni or sono, tale riforma ha introdotto il principio della bigenitorialità, disciplinando ex novo l’art. 155 c.c., ed altresì introducendo all’interno del codice civile gli artt. dal 155 bis al 155 sexies, al fine di stabilire criteri ai quali il giudice deve adeguarsi nell’adozione dei provvedimenti relativi ai figli minori.
In secundis, relativamente ai rapporti di filiazione è intervenuta un’ulteriore Riforma c.d. della filiazione, con L. n. 219/2012 e D.Lgs. n. 154/2013, in vigore dal 2014.
La Legge n. 219 del 2012 recante disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali, all’art.2 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione. In esecuzione di tale delega è stato emanato il D.Lgs n. 154/2013 recante “modifica della normativa vigente al fine di eliminare ogni residua discriminazione rimasta nel nostro ordinamento fra i figli nati nel e fuori dal matrimonio, così garantendo la completa eguaglianza giuridica degli stessi”.
Viene così attuato il principio secondo il quale tutti i figli sono uguali, con lo stesso status giuridico.
Viepiù. La Riforma, tra le altre innovazioni, mediante una diversa indicazione non solo terminologica ma anche sostanziale, ha sostituito la locuzione “potestà genitoriale” con quella di “responsabilità genitoriale”.
Il contesto socio-culturale del nostro Paese è stato cronicamente fondato sulla cosiddetta maternal preference.
Tale principio, benché fosse in contrasto con la ratio della legge n. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, ed altresì non previsto dagli artt. 337 e ss. del codice civile, è stato per lungo tempo applicato da una parte della giurisprudenza.
Si tratta di un criterio astratto – ben consolidato nel tempo, privo di codificazione normativa ed invero suffragato da regole sociali non scritte ma ben radicate anche sul versante giuridico- consistente nella propensione a supporre che la madre fosse il genitore più idoneo per il collocamento dei figli, a prescindere dall’idoneità e dalle capacità paterne.
In seguito all’applicazione della “maternal preference” da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito, la sostanziale ostilità applicativa del diritto alla bigenitorialità ha portato ad una sequela di discriminazioni giuridiche tra genitori entrambi affidatari, demarcando così un notevole distanziamento tanto dalla ratio della riforma n. 54/2006, quanto dal diritto soggettivo alla vita familiare riconosciuto dall’art. 8 CEDU.
Tale diritto soggettivo fondamentale può essere suscettibile di lesione, restrizione od esclusione, da quelle statuizioni che, nel disciplinare l’affidamento e le modalità di visita e di frequentazione del figlio minore, si rivelino limitative ed in contrasto con il tipo di affidamento scelto da violare il diritto alla bigenitorialità, inteso come presenza comune dei genitori nella vita del figlio, volta a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive sia con il padre che con la madre, entrambi tenuti a cooperare nell’assistenza, educazione e istruzione della prole.[8]
Appare necessario enfatizzare che non sempre il principio di bigenitorialità è stato applicato dalla Suprema Corte in modo uniforme, portando ad interpretazioni contrastanti con il principio medesimo e, conseguentemente, al concetto discriminatorio di “accessorietà” del genitore non collocatario il quale, in base al criterio di preferenza materna, si identifica nella figura del padre.
Gli Ermellini, mediante una recente Ordinanza, hanno osservato come “rimarca, in via speculare, il carattere non obbligato ed incoercibile del dovere di frequentazione del genitore, il diritto del figlio minore di frequentare il genitore quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata, per caratteri tanto più obiettivamente inverabili quanto più vicina sia la maggiore età e che, in quanto tali, possono spingersi fino al rifiuto stesso”. Aggiungendo, altresì, che “il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. trattandosi di una potere-funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c., una “grave inadempienza”, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”.[9]
Alla luce delle osservazioni espresse dalla Suprema Corte, appare lapalissiano come emergano tanto l’arbitraria prerogativa del minore di astenersi dal frequentare il genitore non collocatario, senza la sussistenza di un valido motivo; quanto l’incoercibilità del diritto-dovere di visita del genitore non collocatario al figlio minore. Tali considerazioni portano al sostanziale valicamento del principio di bigenitorialità, nonché ad una visione contingente dei diritti/doveri del padre.
Occorrerebbe “la capacità di riconoscere che il figlio è altro da sé e che il nutrimento del quale necessita richiede la compresenza sia della funzione materna, sia di quella paterna”.[10]
Orbene, si può pacificamente affermare che la reiterata applicazione del principio relativo alla “maternal preference” ha spesso dato vita ad una normalizzazione della deprivazione paterna.
Invero, il rapporto qualitativamente discrepante tra il figlio minore e la figura paterna, sostanzialmente generato da una vocazione culturale volta alla centralità del concetto di “matri-focalità”- comparabile alla teoria copernicana in quanto basato sulla figura materna concepita come punto focale intorno alla quale ruota la famiglia – ha condotto ad una progressiva emarginazione e vulnerabilità della funzione paterna, anche in relazione al diritto di visita e ai tempi di permanenza dei figli minori presso il genitore non collocatario.
Il principio della bigenitorialità, che pone al centro l’interesse esclusivo del minore, è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. I civile, con l’ordinanza n. 2947/2025.
In particolare, la Cassazione -sottolineando l’importanza della bigenitorialità- afferma che “risulta invero errata la identificazione dell’interesse della minore con la volontà da questa espressa, ove la valutazione sia stata compiuta decontestualizzandola da tutti gli altri fattori che il giudice deve necessariamente prendere in considerazione”. Nel caso di specie, infatti sussisteva un forte intralcio al diritto di visita di uno dei due genitori a causa delle condotte ostruzionistiche e manipolative dell’altro, nell’ambito di un contesto familiare molto conflittuale.
Non di rado, la disgregazione dell’unione familiare- spesso accompagnata da accesi conflitti, si riflette nel rapporto tra genitori e figli. Si assiste così ad un vero e proprio vacillamento tanto del diritto all’assistenza morale e materiale di questi ultimi, quanto di un supporto emotivo e affettivo. E’ un dato agevolmente rilevabile che “i figli dei divorzi, prima o poi, riusciranno a leggere le carte processuali dei loro genitori. Perché il vero tribunale della vita sono loro. E la sentenza che emetteranno sarà senza appello. Ci sono figli che, dopo aver messo insieme i puzzle della verità a distanza di anni, hanno maledetto uno o entrambi i genitori per il male patito in una infame causa di separazione”.[11]
Spetta, così, anche alle istituzioni incoraggiare e patrocinare la concreta applicazione del concetto di bigenitorialità, che si configura come un diritto in primis del minore e solo in secundis dei genitori[12], e dipanare lo sviluppo di rapporti dissestati tra i genitori e tra questi ultimi e i figli, supportando le famiglie nel superamento dei conflitti interni alle stesse, mediante servizi di ausilio inerenti la mediazione familiare, le consulenze psicologiche familiari, programmi di educazione parentale e servizi di assistenza al fine di fornire aiuto pratico ed emotivo alle famiglie.
Solo recentemente, in deroga al consuetudinario principio della maternal preference, si è assistito ad un’inversione di tendenza e ad un progressivo affievolimento dell’applicazione di tale criterio.
Invero, in ossequio al principio del cosiddetto child’s best interest, ossia dell’interesse superiore del minore, in sede di separazione dei coniugi, l’affidamento così come il collocamento dei figli minori devono rispettare l’effettiva ed esclusiva salvaguardia del loro interesse.
Orbene, il punto di svolta si ha con la recente ordinanza del 21 gennaio 2025 n. 1486 della Suprema Corte la quale ha disposto un revirement significativo aprendo nuove prospettive in tema di tutela dei diritti dei minori, di collocamento paritetico presso entrambi i genitori dei figli minori in età prescolare e di superamento della maternal preference.
Nel caso di specie, il Tribunale di Padova aveva disposto l’affidamento condiviso con collocamento paritario della figlia minore in seguito alla separazione dei genitori. La decisione del Tribunale di Padova era stata successivamente impugnata innanzi alla Corte d’Appello di Venezia, modificando la decisione originaria e disponendo il collocamento prevalente presso la madre, sulla base dell’età della minore e sulle “precipue attitudini della figura materna”. Si assiste così, ancora una volta, all’applicazione del criterio della maternal preference che prescinde da qualsivoglia valutazione concreta circa le capacità individuali di ciascun genitore, così come all’omessa considerazione per le attitudini paterne anche in assenza di gravi ragioni ostative e, soprattutto, alla noncuranza delle esigenze del minore, il quale diventa protagonista di una decisione frutto di un automatismo privo di consapevolezza.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 21 gennaio 2025 n. 1486, ha annullato la decisione della Corte d’Appello di Venezia, affermando che “Nell’adottare la decisione in questa sede impugnata, la Corte d’appello ha operato un giudizio in astratto, incentrato sulla sola età della minore, senza prestare attenzione alle modalità di relazione in atto della bambina con i genitori, ritenendo prevalente tale criterio astratto rispetto alle concrete condizioni di vita della famiglia e deve valutare in concreto le condizioni di vita familiare la migliore soluzione da adottare, alla luce del criterio posto dall’art. 337-ter c.c. in relazione alle capacità e attitudini di entrambi i genitori nella cura e nell’educazione della minore”.
In dettaglio, i principi stabiliti dal Supremo Consesso con la recente ordinanza, sono compendiabili nei seguenti punti di diritto.
Innanzitutto, la Corte considera la valutazione concreta del superiore interesse delle esigenze dei figli minori, nonchè delle capacità genitoriali di ambedue i genitori e, conseguentemente, sancisce sia il superamento della maternal preference, sia dell’omessa osservazione per le condizioni di vita familiare.
La Corte ribadisce così la sacralità del principio di bigenitorialità e del diritto del minore a mantenere e sviluppare un rapporto armonico e continuativo con ciascun genitore, disponendo, nel caso concreto, il collocamento paritetico della minore presso entrambi i genitori.
In conclusione, la ratio dell’ordinanza è tangibilmente intrisa nei summenzionati principi, mediante i quali la Corte ha in primis posto al centro degli interessi il benessere e la tutela dei minori ed, in secondo luogo, forse inconsapevolmente, ha restituito -nel contesto della separazione e dell’affidamento dei figli minori- dignità ed importanza al ruolo paterno accompagnato per lungo tempo da un progressivo, complesso e multifattoriale fenomeno di impallidimento del suo ruolo.
[1] GASSANI Gian Ettore, C’eravamo tanto armati, storie di cuori spezzati, Imprimatur Ed., Reggio Emilia, 2017, p. 31.
[2] CERAMI P., CORBINO A., METRO A., PURPURA G., Ordinamento costituzionale e produzione del diritto in Roma antica. I fondamenti dell’esperienza giuridica occidentale, Jovene, Napoli, 2001, pp. 200-201.
[3] VICO Gianbattista, La scienza nuova, in Opere, Milano, Biblioteca Treccani /Il Sole 24 Ore, 2006, capov. 522.
[4] MOZZONI Anna Maria, Del voto politico delle donne. Petizione per il voto politico, La donna, IX, 290, 30 marzo 1877.
[5] Art. 29 Cost.: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare“.
[6]Art. 30 Cost.: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire e educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità“.
[7] Art. 316 c.c.: “Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore e adottano le scelte relative alla sua istruzione ed educazione.
In caso di contrasto su questioni di particolare importanza, tra le quali quelle relative alla residenza abituale e all’istituto scolastico del figlio minorenne, ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei.
Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, tenta di raggiungere una soluzione concordata e, ove questa non sia possibile, adotta la soluzione che ritiene più adeguata all’interesse del figlio.
Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi.
Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio”.
[8] Cass., Sez. I, Sentenza n. 9442/2024 (cfr Cass., Sez. I, sentenza n. 332/2024; Cass., Sez. I, sentenza n. 32013/2023; Cass., Sez. I, ordinanza n. 4796/2022; Cass., Sez. I, ordinanza n. 9764/2019).
[9] Cass. Sez. I, ordinanza n. 6471/2020.
[10] RECALCATI Massimo, Cosa resta del padre? La paternità nell‘epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
[11] GASSANI Gian Ettore, C’eravamo tanto armati, storie di cuori spezzati, Imprimatur Ed., Reggio Emilia, 2017, pp. 29-30.
[12] Si veda Cass. Civ., Sez. I, ordinanza n. 21425/2022.
Federica Corso