Diritto, pace e sovranità: un fil rouge da Dante a Kelsen per un’urgenza più che mai attuale

ABSTRACT: This work, starting from the current geopolitical moment and making a brief historical-philosophical excursus, focuses on one of the main political-juridical categories in the history of ideas, the Sovereignty, identifying an underground thread that connects Dante Alighieri and his De Monarchia with the pure doctrine of law of Hans Kelsen, passing through an early work of the Austrian philosopher.

The result is the more urgent need than ever for supranational solutions that combine universal peace, justice and freedom.

ABSTRACT: Il presente lavoro, partendo dal momento geopolico attuale e compiendo un breve excursus storico-filosofico, si concentra su una delle principali categorie politico-giuridiche della storia delle idee, la Sovranità, individuando un filo sotterraneo che collega Dante Alighieri e il suo De Monarchia con la dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, passando per un’opera giovanile del filosofo austriaco.

Ne viene fuori l’urgenza più che mai attuale a soluzioni sovranazionali che contemperino la pace universale, la giustizia, la libertà.


La pandemia di pochi anni fa, la vicina guerra in Ucraina, il rimescolamento geopolitico, la scomposizione identitaria, la celere trasformazione delle relazioni internazionali, la fluidità delle visioni e delle scelte politiche, l’emersione sempre più diffusa di una tendenza alla frammentazione con buona pace delle polarizzazioni ormai desuete, hanno aperto un forte senso di incertezza e inquietudine nelle menti e nei cuori delle donne e degli uomini comuni.

La radicata sensazione che mai più la guerra avrebbe trovato ingresso nel Vecchio continente si è sciolta come neve al sole, dissipata nel volgere di un battito d’ali di farfalla.

L’idea di appoggiarsi ad un riferimento certo e affidabile, che possa incarnarsi nel mito del progresso tecnologico e medico, o nel volto rassicurante del Papa, o nelle parole di protezione di qualche leader illuminato, è gradualmente retrocessa da pensiero forte a sentimento di timore e tremore, quasi heideggeriano.

Soprattutto, l’idea che il diritto sia in grado di prevalere su tutto, diffondendosi a macchia d’olio e preservando la civiltà, la giustizia, la libertà e la pace, sembra scontrarsi con la realtà di quanto sta accadendo in questi ultimi anni.

Il diritto della forza sembra avere la meglio sulla forza del diritto. Le relazioni internazionali sono sempre più improntate a esibizioni muscolari, manifestazione più o meno retoriche di deterrenza nucleare, fino al concreto esercizio di azioni violente (Ucraina, Gaza, ma altre decine di conflitti sparsi per il mondo). Lo scenario inquietante di una “guerra mondiale a pezzi” (Bergoglio).

Il concetto stesso di sovranità sembra divenuto liquido. Trump che annuncia di voler annettere uno stato sovrano (Canada) o di volersi prendere la Groenlandia che però appartiene a un altro stato sovrano (Danimarca), la Russia che invade l’Ucraina, la Cina che fa la posta minacciosa a Taiwan, la perenne contesa sul Kashmir tra India e Pakistan, sono macroesempi di tale temperie.

Invero, ogni tentativo di delineazione scientifica della sovranità non è immune da questioni complesse e articolate. Il dibattito infinito sulla sovranità pone, ancora oggi, uno dei massimi problemi giuridici e politici alla riflessione del mondo Occidentale e uno dei più potenti e longevi miti che connota anche l’età contemporanea.

Della sovranità non può non evidenziarsi il carattere di opacità scientifica. Jacques Maritain[1], in proposito, parla di oscurità del concetto.

Del resto, è davvero arduo, rinvenire nel pensiero filosofico, politico e giuridico una definizione univoca di sovranità.

La sostanziale discordanza su quale sia l’essenza del diritto, discussa in particolar modo dalla teoria giuridica e dalla teoria politica novecentesche, fa sfociare la storia della teoria della sovranità in due sostanziali paradigmi.

Da una parte, l‘anima del diritto è considerata quale espressione di una volontà sovrana sorretta e alimentata da un determinato potere politico; dall‘altra, essa è intesa e decodificata come validità normativa basata su principi prettamente ideali.

Il primo senso, di radice politico-empirista, apre a una puntuale notazione della complessità di fatto sottesa all’alveo della scienza giuridica: le dimensioni culturale, politica, economica, sociologica, psicologica, etica e filosofica correlate al fenomeno diritto.

Il secondo, di estrazione neokantiana, pone l‘accento invece sulla natura del diritto come sistema di idee regolatrici, distinte dai processi fattuali ed empirici, che soggiacciono a esso, e quindi, in ultima analisi, distinte e, in qualche misura, slegate dal potere stesso.

La sovranità è un concetto messo al centro di uno scontro incrociato, combattuto tra la sfera dei fatti (politica, potere, empirismo) e quella delle norme (diritto formale, principi ideali), tra diritto come principio di regolazione, ordine che legittima uno stato di cose, e diritto come potere effettivo e forza di scardinare quello stesso ordine.

La sovranità è dunque la chiave di lettura per l’analisi delle relazioni intercorrenti tra due approcci opposti, l’uno sostanziale l’altro formale. Il primo si atteggia come approccio filosofico-contenutistico, fondato su convinzioni etico-politiche, sostenuto da valutazioni storiografiche; il secondo come approccio filosofico puramente formale che, per converso, dichiara di volerle escludere dall’edificazione di una scienza giuridica pura.

Vi è dunque un’eterna battaglia tra una sua connotazione giuridica e una sua connotazione eminentemente politica.

Luigi Ferrajoli sottolinea tale ambiguità presentando la sovranità come “concetto, al tempo stesso giuridico e politico, attorno a cui si addensano tutti i problemi e le aporie della teoria giuspositivistica del diritto e dello Stato”.[2]

L‘ambivalenza del termine sovranità conduce a due differenti narrazioni: quella propria della dimensione giuridica e quella tipicamente politica, due profili difficilmente (o forse inutilmente) separabili.

Sicuramente, il percorso storico-filosofico-evolutivo del concetto di sovranità, in uno allo studio della stessa, non può prescindere da una correlazione con il processo di nascita dello Stato-nazione, sorto in età moderna.

Nel senso più vicino a noi, è indubbio che la nozione di sovranità quale suprema potestas superiorem non recognoscens risale alla nascita dei grandi Stati nazionali europei e al connesso sfaldarsi, agli albori dell‘età moderna, dell‘idea di un ordinamento giuridico universale che il pensiero medioevale aveva ereditato dalla cultura romana.

Dunque disquisire di sovranità e delle sue vicende storico e teoriche si traduce nell’analizzare le vicende di quello specifica organizzazione politico-giuridica che è lo Stato-nazionale moderno, sorta in Europa poco più di quattro secoli fa, diffusosi nel ventesimo secolo su tutto il pianeta.

È rilevante mettere in luce che, considerata nelle sue due accezioni principali, ovvero come autorità o potere supremo che prevale, e come fonte giuridica di legittimazione, l’etimologia del termine sovranità e la sua struttura teoretica siano più giovani della storia del suo significato vagliato sotto il profilo prettamente semantico.

In tal senso, benché la parola sovranità sia principalmente legata alla modernità, è parimenti innegabile che il concreto concetto che gli corrisponde è risalente.

Con tale termine si può anche esprimere l‘antico senso insito nella costante esistenza, entro tutte le forme associative, di un potere sovraordinato, di un‘autorità suprema. Per l’etimologia, trae origine da sovra, ossia supra, che “è posto in alto”. 

I Romani adoperavano la locuzione “summum imperium” (dove summum reca l’analogo significato “di più in alto”) che, in buona sostanza, altro non designava che il concetto modernamente sotteso al termine sovranità.[3]

Kelsen considera realistica la presenza nei Greci, sebbene in misura decisamente inferiore rispetto ai Romani, di una concezione sovrana del loro ordinamento giuridico.

Caratteristica dell‘Impero Romano, a differenza dei sovrani delle monarchie ellenistiche (che subentrarono alla forma politico-organizzativa della polis, come ebbe a sperimentare Aristotele), risiedeva nella circostanza che l‘Imperatore iniziò – dal primo secolo d.C. –, ad essere visto come “posto al di sopra della legge”, che era implementata non solo dai codici normativi, ma anche dai costumi e dai caratteri della società, delineandosi un forte centralismo e un efficace controllo del territorio, mediante l’utilizzo della dichiarazione di cittadinanza romana a ogni persona libera e vivente all‘interno dell‘Impero, in virtù del noto editto di Caracalla del 212 d.C. (Constitutio Antoniana).

Nel proposito di non limitare il principio di sovranità alla sola Età moderna, è utile evidenziare che la sua matrice semasiologica appare in continuità con il modello imperiale romano anche nel corso del Medioevo, rappresentata dalla formula, espressa al negativo, di “rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator”.[4]

Essa disvela il postulato, per nulla astratto, per cui i poteri, solitamente in capo all‘Imperatore, vengono riconosciuti ora anche ad ogni re all’interno del rispettivo regno e ambito territoriale di governo.

La formula finisce per definire concretamente i rapporti gerarchici esistenti nella società medievale la quale, nonostante la presenza di forme statuali di tipo embrionale, elabora comunque un concetto di sovranità, per l’epoca, particolarmente articolato.

Si afferma, sul punto, “che il medio evo non conobbe il concetto moderno di sovranità, inteso come potere assoluto ed arbitrario dello Stato, come del resto non conobbe il concetto di Stato” e “per quanto l‘idea moderna di sovranità sia estranea al mondo medioevale, tuttavia – si dice – è in quel mondo che noi dobbiamo ricercarne la genesi”.[5]

La formula si presenta storicamente all‘interno di una cornice di ordinamento giuridico e politico universale, gerarchicamente ordinato, in cui, alla concezione romana del potere d‘imperio si affianca la riscoperta della filosofia aristotelica, che passa attraverso una lettura cristiana, soprattutto tramite la riflessione di Tommaso d‘Aquino.

L‘imperfetto universo giuridico terreno tende all‘unità perfetta ultraterrena, di cui è immagine.

Il senso, che dall‘Età romana a quella medievale giunge fino a noi, ha la caratteristica di sostanziarsi in una visione universalistica ordinata del mondo del diritto, che – come è visibile in autori come Dante – è a immagine del perfetto ordine dei cieli, in cui il potere supremo è, senza dubbio, detenuto ed esercitato dall‘Imperatore, ma si sostanzia in concreto nell’esercizio da parte dei soggetti sottordinati (i singoli re), che hanno pieno potere e controllo sul proprio territorio, secondo un ordine naturale comprendente una molteplicità di soggetti di potere non esclusivo che si rivelano parti integranti di un tutto uno globalmente ordinato.

In tale contesto, si nota l’emersione di un termine nuovo, iurisdictio.

Si tratta della posizione di potere di un soggetto o di un ente: in quanto dotata di iurisdictio una città può organizzarsi giuridicamente, darsi uno ius proprium, rendere giustizia.[6]

Il potere supremo, la iurisdictio plenissima, resta in capo all‘Imperatore.

Il sistema della iurisdictio è articolato in più strutture. L‘Imperatore possiede sì la pienezza del potere, ma ciò non è incompatibile con la circostanza che enti, gerarchicamente inferiori, siano titolari di una loro specifica iurisdictio, ossia una sfera di autonomia che coincide con le effettive capacità auto-ordinanti del singolo ente.

A livello concettuale, diremmo antropologico, si trasferisce nel Medioevo, in special misura nel corso della diatriba tra Papato e Impero, la potente figura dell‘Imperatore romano, colui che legifera e fa rispettare le leggi emanate, titolare esclusivo di un potere sovrano.

Concretamente, sin dalla fondazione del Sacro Romano Impero, di fronte alla sua vastità territoriale e al suo continuo affievolimento proprio per effetto della disputa con la Chiesa, diventa storicamente impossibile nel Medioevo, per l‘Imperatore, un effettivo, esteso e capillare controllo.

Dunque, è inevitabile, rebus sic stantibus, che il concetto stesso di piena sovranità materiale venga soppiantato da una sua suddivisione gerarchica, o per cerchi concentrici, rispecchianti i gradi della società medievale, ed esercitata principalmente dai vari re, i quali – tramite i loro vassalli – riescono ad esercitare il loro dominio su un dato regno.

Tale armonia di sistema si erode progressivamente fino all’Età moderna.

Sono Thomas Hobbes[7] e Immanuel Kant[8], tra gli altri, a condurre, con le loro riflessioni e passando per la recente teoria del contratto sociale, la concezione della sovranità verso nuovi lidi, fino a farle conseguire la sua moderna definizione, sia nell’esercizio verso l‘interno, che in quello verso l‘esterno.

L’Età moderna abbandona progressivamente l‘ideale di civitas maxima dell‘Impero Romano e di reductio ad unum medievale, per sostanziarsi in un‘effettiva assolutizzazione della sovranità interna tramite la figura artificiale dello Stato come dio mortale, che arriva sino all’odierno.

Mentre nel Medioevo, il potere d‘imperium non necessita di giustificazione mediante astrazione, risultando legittimato dall‘ordine politico-sociale dato, Hobbes teorizza la sussistenza di una personalità fittizia, su cui ritiene legittimo polarizzare tale potere al fine di dirimere le controversie interne.

È tale artificio che, adoperando l’idea di fondo del contratto sociale, conduce a creare l‘ordine interno, non più garantito naturalmente, incorporando la totalità dei poteri esistenti in un dato territorio comprendente i suoi cittadini.

Ne Il Leviatano, Hobbes prospetta un primitivo stato di natura, connotato dalla presenza di uno stato di guerra pressoché perenne di tutti contro tutti, sopravvivere, non essere sopraffatti e raggiungere la pace implicano necessariamente l‘abbandono consapevole dello stato di natura e la fondazione di un contratto sociale, condiviso, di tipo volontaristico basato su un‘autorità centrale, sovrana e assoluta.

Dal caotico stato di natura, in cui l‘uomo non è più aristotelicamente definibile un animale politico, e vige la regola dell’“homo homini lupus”, si presceglie di passare allo Stato, quale fictio, ovvero ente artificiale sovrano, garante della pace.

Secondo Kant, il costituirsi dello Stato ha matrice razionale e non empirica: il contratto originario, rappresenta la sovranità ideale del popolo.

In tal senso, il concetto stesso di sovranità del summum imperium è sussumibile nell‘assetto della necessità razionale e, costituendo un a priori della ragione, si sottrae, per la prima volta nella storia, alla sua consueta declinazione materiale ancorata, nella sua essenza, al perseguimento del fine meramente politico. Accanto al diritto statale, razionale e necessario, sussistono, altrettanto razionali e necessari, un diritto cosmopolitico degli individui a essere cittadini del mondo e un diritto dei popoli alla pace (diritto internazionale).

In esito ad entrambe le tesi, il passo successivo e moderno si sostanza nel ridefinire la sovranità secondo due relazioni, movimenti, o direzioni.

La prima relazione, orientata verso l‘interno, la vede configurarsi come sovranità di diritto statale, potere sul territorio e sui cittadini.

La seconda, orientata verso l‘esterno, dà invece luogo a una sovranità di diritto internazionale, indipendenza dagli altri enti sovrani esterni.

La dottrina dominante definisce dunque la direzione della sovranità statale come il rapporto che lo Stato ha con i suoi sottoposti, dando luogo, in realtà, secondo Kelsen[9] a una sorta di tautologia, mentre quella della sovranità giuridica internazionale definirebbe il rapporto dello Stato con gli altri Stati.

Si consuma così una forte ambivalenza tra sovranità del diritto interno e sovranità del diritto internazionale, che sembrano porsi come due oggetti conoscitivi diversi, recanti tuttavia lo stesso nome. Queste due direzioni riprendono puntualmente i movimenti della sovranità indicati[10]da Hegel.

Per Kelsen, i due movimenti rappresentano unicamente due relazioni di un unico ordinamento sovrano, verso l’interno e verso l’esterno. La sua riflessione[11] parte da giovane, da quando cioè resta folgorato da Dante Alighieri[12] e dal suo De Monarchia.

Il filosofo austriaco si concentra essenzialmente su tale opera per le ragioni che seguono.

In primo luogo, il De Monarchia è considerato essere la più risalente monografia della pubblicistica medievale dedicata allo Stato universale. Tacciato di eresia e messo al rogo già nel corso del Trecento, è inserito da Papa Paolo IV nel 1559 nel primo Index librorum prohibitorum, cosiddetto “Paolino”.

Il primo capitolo dell‘opera è dedicato all‘analisi della situazione storico-politica del tredicesimo secolo, affrontata per cerchi concentrici.

È delineata la situazione internazionale, connotata dalla lotta tra le due maggiori potenze del tempo, il Papato e l‘Impero.

É connotata poi la situazione specifica italiana, secondo tre fondamentali momenti: la potenza crescente delle città italiane, l‘atomizzazione statale e l‘emancipazione dell‘Italia dall‘Imperatore e dall‘Impero.

Si analizzano infine le condizioni politiche di Firenze che, ricorda Kelsen, viene considerata “il primo Stato moderno al mondo”.

Kelsen descrive la posizione politica attiva di Dante nella sua città, fino al suo esilio, sintetizzando, come segue, il background da cui nasce il De Monarchia: “In questo ambiente Dante ha ideato la sua grande concezione sullo Stato e l‘umanità: tutto il mondo occidentale diviso nei due campi nemici del papato e dell‘impero – l‘Italia frantumata in innumerevoli stati e partiti che lottano tra di loro, che si adoperano ad annullarsi l‘un l‘altro – la patria grondante del sangue di una nefasta guerra civile – ed egli stesso un esiliato senza patria, un uomo senza pace, che nulla brama più della pace! Pace per sé, per la sua città e per l‘Italia, per tutta l‘umanità! Pace è il più forte desiderio della sua vita, è il concetto centrale del suo sistema politico”.

È notevole rilevare in che misura si possano scorgere, in embrione, la visione matura e compiuta del Kelsen formalista, con precipuo riferimento alla teoria della sovranità e del diritto internazionale, nonché al tema del suo pacifismo giuridico.

Ma torniamo a Dante. Come noto, il De Monarchia si compone di tre libri.

Nel primo, si tratta il profilo, di natura filosofico-giuridico-politica, se la monarchia universale sia necessaria alla pace e al benessere del mondo.

Nel secondo, si affronta la tematica storica se il popolo romano abbia avuto diritto alla sovranità su tale monarchia, in quanto destino voluto dalla Provvidenza.

Nel terzo, si vaglia la questione teologico-politica se l‘autorità del monarca e dunque della stessa monarchia universale dipenda direttamente da Dio o debba passare per il Papa, suo vicario in terra.

Tutto è finalizzato a sostenere la necessità di un imperium, nel senso di monarchia temporale universale: una “autocrazia esercitata su tutto ciò che soggiace al concetto di tempo[13] (Kelsen), che raccolga la pluralità di regni, principati e territori disgregati, disgiunti o in conflitto.

All’apice di tale imperium vi è l’Imperatore che detiene il potere temporale, mentre quello spirituale è detenuto dal Papa (Teoria dei due soli). L‘Imperatore è giudice dei conflitti, garante della pace e legislatore a servizio del popolo. Non potere, ma servizio. Non tutela dell’interesse singolare dell’Imperatore, ma dell’esigenza superiore della pacifica convivenza a tutti i livelli sociali e politici.

La Monarchia temporale (Impero) è unica e detiene il potere super omnes: la sua autorità si esercita cioè universalmente, su ogni individuo e temporalmente, quindi sulle organizzazioni e istituzioni di carattere temporale.

Secondo Kelsen, Dante “scorgeva in uno stato mondiale monarchico la salvezza dell’umanità”.[14]

L’idea è dunque quella di una monarchia universale, ovvero il luogo ove si estrinseca il principio dell’unità dell’autorità politica e del diritto (principio unitatis): l’ordinatio ad unum. Per Dante, si tratta di un riflesso della “signoria di Dio” che è unità suprema da cui promana il bene: fonte originaria di Diritto e Giustizia.

Dante riprende il principio aristotelico della natura sociale dell’uomo (animale politico): gli individui necessitano, per realizzarsi, della “cittade” e di una rete pacifica di rapporti tra “cittade” sino al “regno”: viene in evidenza, nuovamente, il concetto di reductio ad unum.

In altri termini, il processo di formazione statuale è graduale e si origina dal bisogno di pace e solidarietà globale che dovrebbe spingere i regni a unirsi in un uno Stato mondiale con tre fini politici interrelati: pace, giustizia e libertà. Ciascuno non si estrinseca senza gli altri due. Non può esistere una pace ingiusta perché non è pace. Né una libertà che sia priva di pace. Né una giustizia che faccia a meno della libertà. E così via.

Intimamente connessi, sono in ultima istanza facce di un Bene supremo, riflesso di Dio.

Inoltre, per Dante, come nel pensiero aristotelico, la psiche umana – duplice in quanto materiale e spirituale – si dibatte tra potenza e atto e nello Stato ritrova unità e stabilità. Il profilo spirituale della natura umana, ossia la necessità di realizzare il proprio potenziale, e quello materiale, ossia l’aspirazione alla felicità, sono entrambe causa e fondamento dell’origine dello Stato.

La loro armonizzazione, reductio ad unum (rieccola), si realizza nella monarchia universale ove vi è soddisfazione di un bisogno spirituale e un imperativo di pace tra i regni senza cui la felicità diviene un vano agognare.

L’uomo attualizza il suo potenziale nello Stato universale (Hegel) e nella partecipazione alla civitas (Gaber).

In Hegel[15], lo Stato è “il razionale in sé e per sé”, in cui la volontà razionale acquista piena consapevolezza di sé stessa, dove dunque la libertà si attua e si esplica pienamente. Breviter, solo nello Stato si è davvero liberi.

In Gaber[16], “libertà è partecipazione“, ossia concorso ai processi decisionali per indirizzare la vita della comunità e di riflesso quella individuale: non è mera assenza di vincoli ma luogo di incidenza responsabile nella realtà sociale e politica.

Entrambe le visioni rappresentano facce della stessa unica medaglia, quella tendenza all’unità come spazio supremo per il benessere e l’armonia che non prescinde dalla libertà, lo stesso della monarchia dantesca ove dunque è sorprendentemente rinvenibile una notevole quota di modernità. Quella di Dante è una monarchia universale temporale, ma non assoluta: essa esercita l‘autorità d‘imperio tramite la legge e nella legge. Conservando la sottoposizione alla giuridicità, rende liberi, promuove la certezza, garantisce la convivenza civile a tutti i livelli.

La rilettura dantesca incarna un’urgenza globale del tempo (oggi più che mai attuale), poiché in un momento di confusione e disgregazione politica, la iurisdictio si pone quale l’unica e realistica possibilità di pace mondiale.

Tale visione, al contempo, resta ovviamente permeata da un’anima teologica tipicamente medievale, effetto dell’inevitabile influenza Patristica e Scolastica, e dei retaggi dell‘età cristiano-romana, come si evince dalla continua dialettica tra dimensione temporale e dimensione spirituale presente nell’opera dantesca.

Il Sommo Poeta è considerato da Kelsen sia come uno degli esponenti con cui la dottrina medievale raggiunge il suo culmine, sia come l‘iniziatore di una moderna visione statuale.

Dante rappresenterebbe la base di partenza per una moderna filosofia dello Stato e del diritto, rivolta in nuce a svincolarsi dalla teologia.

Kelsen riconosce a Dante l‘utilizzo di un metodo scientifico rigoroso tendente all‘unità giuridica: l‘ideale imperiale di Dante non dipende da una sua visione partitica particolare, ma da una sua convinzione scientifica che intravedeva nello Stato mondiale monarchico l‘unica possibilità di salvezza e di cura dell’umanità.

Il Dante di Kelsen è, sotto tale profilo, pur con le dovute distanze e distinzioni, un suo stesso precursore.

Lo è per la presenza di un primo tentativo di definire giuridicamente, attraverso l’idea della Monarchia universale sopra illustrata, lo Stato di diritto (Rechtsstaat).

Lo è per la stupefacente analogia tra l’impostazione monista e universale dell’imperium di concezione dantesca e la prospettiva ideale dell‘ordinamento giuridico universale kelseniano.

Il sistema di Dante, di fronte a un contesto politico variegato e disgregato, impone in primis l’individuazione di chi abbia il potere e l’autorità per dirimere le controversie tra entità politiche in lotta. Di qui la figura dell‘Imperatore come essenziale e esclusivo rimedio alla guerra, alla disarmonia, all‘ingiustizia, ad incarnare un’autorità imparziale e super partes.

Si tratta di una sovranità di tipo universale: è la giurisdizione su ogni popolo e principe, subordinata alla legge e al fine preminente della Monarchia (la pace).

Oggi più che mai attuale la ricerca di tale figura: un’autorità sovraordinata garante della pace e dell’armonia universali.

Tale tematica è, in un certo senso, ripresa e articolata da Kelsen proprio al cospetto delle dispute tra Stati moderni che, in re ipsa, si percepiscono sovrani, atteggiandosi come tali sia all‘interno del loro territorio che verso l‘esterno.

Senza dubbio, nella sovranità giuridica kelseniana, la legittimazione all‘azione, che sia dello Stato, del principe o del diritto internazionale, è attribuita unicamente dall‘ordinamento giuridico.

Ogni autorità deriva da un ordinamento postulato e superiore.

La convinzione della propria sovranità verso l‘esterno porta ogni Stato ad autodeterminarsi e sentirsi autonomo nella sua azione verso gli altri e autorizzato a effettuare azioni o reazioni aggressive, quali ad esempio la guerra, che auto-delibera.

Nella conflittualità internazionale tra Stati, non vi è un‘autorità giurisdizionale terza super partes che possa dirimerne le ostilità e le contese, irrogando, in definitiva, le giuste sanzioni, ripristinando pace e giustizia, mantenendo armonia e solidarietà.

Ebbene, sia nel contesto storico dantesco che in quello kelseniano, sembra prevalere non il diritto ma la forza: ossia, nelle dispute, il soggetto più potente.

Verosimilmente in tale amara, ancorché realistica, constatazione risiede l’anelito di Dante alla proposta di un’autorità temporale ultima volta ad assicurare benessere, giustizia e pace universale, proprio quella che oggi viene definita da più parti una “giusta pace”.

Kelsen, in qualche misura, recupera la figura dantesca dell‘Imperatore, ponendone in risalto il ruolo giurisdizionale. Per il filosofo austriaco, “come capo del suo Stato universale realizzante la pace, Dante si figurava l‘imperatore come supremo giudice di pace[17], somma autorità sui poteri parziali.

Rifacendosi a tale figura, prospetta uno status di “international peace that require International Authority with power to decide[18], un’autorità sovranazionale che assicura la pace globale.

Tale autorità è sottoposta solo alla legge, alla maniera dell’Imperatore-giudice di Dante che pur esercitando il potere temporale sul mondo, non è assoluto in senso hobbesiano.

In sostanza, egli non ha un potere illimitato, svincolato e absolutus ma, nel rispondere solo al diritto, è l‘organo del supremo potere ma non il potere stesso e, in tal senso, ne diviene il detentore e garante.

È così simbolo dell‘unità politica mondiale terrena. Regna sulla molteplicità internazionale, conducendola a unità giuridica, come riverbero della perfezione dell‘unità dei Cieli (Dante).

Analogamente, si pone la visione del pacifismo giuridico kelseniano che si atteggia quale essenziale urgenza di una forte giurisdizione mondiale e che si traduce, in concreto, nell’istituzione di una Corte di giustizia internazionale che eserciti la giurisdizione nell’imparzialità al fine di comporre le controversie tra Stati, in luogo dei conflitti e delle guerre.

È plausibile che Kelsen sia affascinato dalla tesi di una struttura monarchica universale, in cui l‘Imperatore si pone al vertice non come sovrano assoluto, bensì come servitore dello Stato, giudice supremo e punto di riferimento dei popoli che raggruppa in esso e che tutela nel mantenimento della pace.

Alla stregua di Dante che inquadra l‘Imperatore nell’“officium Monarchiae”, ossia nella funzione dirimente e pacificante a servizio dell‘umanità, in adesione al diritto, allo stesso modo Kelsen definisce la sua autorità sovranazionale.

La sovranità va di pari passo con il diritto. Il concetto stesso di Stato, in Kelsen, diventa indissolubilmente connesso a quello di ordinamento giuridico, come insieme di norme, fino al punto in cui Stato e diritto sono termini del tutto interscambiabili che etichettano realtà, in definitiva, assolutamente inseparabili.

Peculiarità e modernità di Dante, secondo Kelsen, risiedono nella teoria di giustificare lo Stato non solo in chiave religioso-telogica (il che sarebbe tipicamente medievale), ma anche in quanto ente razionalmente necessario alla realizzazione morale dell’uomo: dunque carattere non solo teologico, ma soprattutto teleologico.

Dalla citata reductio ad unum dantesca a quella di Kelsen il passo è più breve del lasso cronologico frapposto tra i due. Anche Kelsen adotta una soluzione monista: gli ordinamenti giuridici particolari (statali) nell’universale trascendentale dell’ordinamento internazionale.

Di qui la dottrina pura di Kelsen, in cui è posta la civitas maxima, o in termini moderno lo Stato globale.

Lo stato di diritto è organizzazione del potere pubblico (politico) secondo norme giuridiche.

Il diritto è, essenzialmente, un ordinamento per la promozione della pace. Il suo scopo è assicurare la convivenza pacifica di un gruppo di individui, in modo che questi possano risolvere i loro inevitabili conflitti pacificamente, cioè senza l‘uso della forza, in conformità con un ordinamento valido per tutti. Quest‘ordinamento è il diritto”.[19]

L’idea kelseniana della “Lega permanente per il mantenimento della pace” si pone sulla via di uno stato mondiale federale, consentendo lo sviluppo della centralizzazione del diritto internazionale in analogia evoluzionistica con il processo caratterizzante il diritto statale. In qualche misura, è verosimile un’influenza della suindicata teoria kantiana sul diritto cosmopolitico, spettante ad ogni essere umano, intimamente correlato a una prospettiva federalista dei rapporti tra Stati in vista della pace come necessario diritto dei popoli.

Si potrebbe in definitiva affermare non che l‘Impero resti un ideale in cui credere e verso cui tendere, bensì che l‘Impero per Dante e la Permanent League of the Manteinance of the Peace per Kelsen rappresentino, per i due pensatori, l‘esigenza che l‘autorità giuridica e politica, di natura sovranazionale, operi nel mondo assicurando la pace e che quest’ultima non sia disgiunta mai dai valori della giustizia e della libertà.


[1] MARITAIN Jacques, The Concept of Sovereignty, in The American Political Science Review, Vol. 44, N. 2 (Jun., 1950), pp. 343-344.

[2] FERRAJOLI Luigi, La sovranità nel mondo moderno: nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 7

[3] STELLA Giuliana, Sovranità e diritti, Giappichelli, Torino, 2013, p. 76.

[4] GROSSI Paolo, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 1995.

[5] CALASSO Francesco, I glossatori e la teoria della sovranità. Studi di diritto comune pubblico, Giuffrè, Milano, 1957, p. 22.

[6] COSTA Pietro, Immagini della sovranità fra medioevo ed età moderna: la metafora della “verticalità”, in Scienza e Politica, 31, 2004, pp. 9-19.

[7] HOBBES Thomas, Leviatano, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1976.

[8] KANT Immanuel, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 2015. KANT Immanuel, Metafisica dei costumi, Bompiani, Milano, 2006.

[9] KELSEN Hans, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Giuffrè, Milano, 1989.

[10] HEGEL Georg Wihlelm Friedrich, Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse: mit Hegels eigenhändigen Notizen u. d. mündl. Zusätzen (1820), Werke 7, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1986, pp. 442 ss.

[11] KELSEN Hans, La dottrina dello Stato in Dante, Boni, Bologna, 1974: traduzione di Die Staatslehre des Dantes Alighieri del 1905. Poi, KELSEN Hans, Lo Stato in Dante, Mimesis, Milano-Udine 2017. L’opera di Kelsen è posta in risalto in Italia, per la prima volta, dallo storico Arrigo Solmi che la recensisce, nel 1907, nel Bullettino Società Dantesca italiana. 

[12] ALIGHIERI Dante, Monarchia, Mondadori, Milano, 1965.

[13] KELSEN Hans, La dottrina dello Stato in Dante, Boni, Bologna, 1974, p. 82.

[14] KELSEN Hans, La dottrina dello Stato in Dante, Boni, Bologna, 1974, p. 48.

[15] HEGEL Georg Wihlelm Friedrich, Fenomenologia dello Spirito, Bombiani, Milano, 2000: traduzione di Die Phänomenologie des Geistes (1807).

[16] Giorgio GABER, nella celebre canzone “La libertà” (1972), canta:

La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione
“.

[17] KELSEN Hans, La dottrina dello Stato in Dante, Boni, Bologna, 1974, p. 97.”

[18] KELSEN Hans, Law and Peace in International Relations. The Oliver Wendell Holmes Lectures, 1940-41, Massachussetts, Cambridge, 1942.

[19] KELSEN Hans, Law and Peace in International Relations. The Oliver Wendell Holmes Lectures, 1940-41, Massachussetts, Cambridge, 1942, p. 5.

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